

























La musica e le lettere gli sono accanto da sempre. Curioso delle melodie di ogni luogo e delle parole che i luoghi nascondono, ha avvicinato l'arte sin da quando, bambino, strimpellava il piano con alterne fortune, lontano dal padre musicista, ribellandosi alla matematica delle note per scoprire modi alternativi di stupirsi. Il caso favorevole gli ha regalato momenti di belle amicizie e di rara complicità . Si è scoperto narratore quando i ricordi sono riaffiorati a poco a poco e ha riempito pagine e pagine dei racconti riemersi. E qualcuno addirittura dice con discreto talento. Lui preferirebbe invece credersi un fortunato navigante al battesimo di un mare per una volta compiacente.
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Qualche
anno fa in gita su un lago nel novarese, mi sono tornate
in mente storie che temevo si fossero assopite o nascoste
fra i risvolti dei pensieri e delle incombenze più
urgenti. E con mia sorpresa mi sono ritrovato a ricordare
quello che alcuni amici mi avevano raccontato, fra un whiskey
ed un altro, e immagini di una terra quasi sconosciuta sovrapposte
ad una città che ho amato e che amo. E così
fra un carruggio e l’altro mi sono divertito a ricamare
i ricordi di parole e immagini intessute di sole lettere
e vocaboli. E a qualcuno era pure piaciuto. Ma non mi sembrava
ancora abbastanza. E come per quelle raccolte di canzoni
che svelano fra le tante già ascoltate un solo unico
inedito, o fra quei libri di immagini già viste migliaia
di volte che fanno riaffiorare una foto perduta, ho rimesso
mano al racconto e gli ho dato una forma compiuta, ho restituito
alla mia memoria la forma di una storia compiuta. Questo
nuovo racconto è arricchito di altri sei anni
di ricordi e immaginazioni, non è la fine della storia,
ma l’inizio di un viaggio al battesimo di un mare spero
per una volta compiacente.
Era Una Giornata Di Sole
romanzo (2018)
disponibile su Apple Books a 4,49 €
(da una recensione su Web)
Il seguito naturale di Via delle Ortensie, il
racconto di Eugenio, lo sventurato navigatore che tra gli
anni Sessanta e gli anni Ottanta vive con la sua compagna
Susanne una serie di tragiche avventure marinaresche. Un
romanzo delicato e al tempo stesso intriso d’amore: quello
fra uomo e donna, quello per i figli, per il mare dal quale è
impossibile allontanarsi e che allegoricamente qui rappresenta
la vita, a volte burrascosa, altre calma e tranquilla. Un
inno all’amicizia, alla fiducia, alla condivisione, ma soprattutto
alla ricerca e al rispetto della dignità. Un racconto
appassionante e delicato che si legge con facilità,
perché scritto con linguaggio fluido, volutamente elementare,
il cui contenuto lascerà ai lettori sentimenti tanto
positivi quanto quelli che animano i personaggi della vicenda
in cui l’autore sa dosare eventi lieti e tristi
della vita. Resterà facilmente nella memoria dei
lettori. La prefazione è di
Giancarlo De Cataldo.
Via delle Ortensie
romanzo
(2012)
disponibile su
Apple Books a 4,49 €
Un romanzo incentrato sulle
vicende dello sventurato marinaio Eugenio e della sua compagna
Susanne, orfana dei genitori svizzeri, cresciuta in un sanatorio
immaginario della riviera ligure ed allevata poi presso
una facoltosa famiglia genovese. Un racconto particolarmente
focalizzato sulla statura psicologica dei personaggi e sull'alone
poetico che li avvolge. Racchiude in sé più vicende
di vita, amore e amicizia. L'ambiente marinaresco, i paesaggi
del Québec, le avventure di Jacques e Mireille fanno da
contorno al racconto che spazia degli anni ‘60, sino ai
primi anni ’80, spaziando per luoghi tutti reali, dai laghi
del novarese alla Svizzera, da Genova al Canada, ed approdando
in un paese immaginario lungo la costa canadese. Questi
luoghi fanno da sfondo all’umanità dei personaggi,
intorno ai quali s’intrecciano altre storie di protagonisti
all’apparenza marginali, ma che sul piano del racconto sostengono
le vicende di Eugenio e Susanne e del loro figliolo Jacques,
divenendo efficaci testimoni dei protagonisti e dell’intera
storia narrata. Un romanzo delicato, piacevole da leggere
e appassionante sino alle ultime righe, raccontato con un
linguaggio semplice per adattarsi ai personaggi immaginari.
Fabrizio De André - Volammo
Davvero - Fondazione Fabrizio De André ONLUS (ed.
La nave di Teseo - 2021)
Come un
romanzo in frammenti, questo libro raccoglie le voci
del discorso ininterrotto che Fabrizio De André ha aperto
con le sue canzoni e la sua vita artistica. Un dialogo
a tutto campo su letteratura, musica, impegno e sui tanti
temi civili percorsi da un cantautore che voleva “essere
socialmente utile”. Un pensiero che scrittori, studiosi,
amici hanno deciso di portare avanti a partire dalle sue
canzoni: parole che scavano, emozionano, illuminano, e aprono
traiettorie sempre nuove a un volo che non si è interrotto.
“Questo libro è la dimostrazione che Fabrizio è
quel che tu hai bisogno che sia, che i limiti di Fabrizio
sono sempre solo i limiti di chi lo avvicina, perché qualunque
cosa si riesca a concepire di chiedergli, lui la dà
– anzi, l’ha già data. Che si tratti di un fotografo,
di un sacerdote, di uno scrittore, di un critico, di un
musicista, di un premio Nobel, l’interlocuzione instaurata
in queste pagine con Fabrizio risulta naturale, perfino
ovvia, per ciascuno di loro, perché il loro punto di vista
e quello di Fabrizio sembrano sempre coincidere - di coincidenze
che possono essere anche del tutto casuali: non cambia nulla,
perché come insegna Yamamoto Jinuemon, padre di Tsunetomo,
autore dell’Hagakure, ovvero il libro segreto dei Samurai,
‘se si guarda bene in una direzione, si vedono anche tutte
le altre’.
Dall’introduzione di Sandro Veronesi.
Postfazione di Dario Fo
E poi il futuro (ed. Mondadori - 2001)
Fabrizio
De André rimane uno dei più carismatici fra i cantautori
italiani.Con la sua voce e con la sua poesia ha cantato
storie e personaggi in cui si è identificata più
di una generazione. Il volume raccoglie molte fotografie
inedite, tratte dal suo album personale e dagli archivi
dei fotografi che più da vicino lo hanno seguito
negli anni. Completano questo diario di una vita la voce
di Fabrizio, attraverso interviste, manoscritti e appunti
originali, e una discografia dettagliata e definitiva.
(discografia e ricerca iconografica album a
cura di Mariano Brustio)
Fabrizio De André in concerto (DVD - 2004)
Concerto
integrale registrato presso il Teatro Brancacciodi Roma
il 13 e 14 febbraio 1998. La foto di copertina è
stata realizzata da Roberto Grandi ed è di proprietà
della Pro Loco di Sasso Marconi. La foto riprodotta sull'etichetta
del DVD è stata realizzata da Carlo Verri.
(la prima discografia ufficiale dell'Artista. Ricerca
iconografica album e redazione a cura di Mariano Brustio)
Belin,sei sicuro ? Storia e canzoni di Fabrizio De André (ed. Giunti - 2010)
Un
racconto per conoscere il vero De André attraversole parole
di chi lo ha conosciuto da vicino. Un prezioso collage di
testi: un saggio critico di Franco Fabbri, una traccia biografica
di Enrico Deregibus e sei interviste a Ivano Fossati, Massimo
Bubola, Giampiero Reverberi, Roverto Dané, Franz Di Cioccio,
Mauro Pagani. Completano il volume belle foto in bianco
e nero e una preziosa discografia illustrata con tutti gli
album ed i rarissimi 45 giri del grande artista.
(discografia
e ricerca iconografica album a cura di Mariano Brustio)
I 101 dischi che hanno
segnato il Québec
- Éric Trudel - (Edition Trécarrè - Montreal Quebec-
2008)
Questa
antologia critica mette in luce queste pietre miliari elencando
gli album che hanno avuto un'influenza e un certo impatto
sull'evoluzione della musica, in Quebec e nel resto del
mondo. Ad oggi, nessuna antologia di questo tipo è
stata prodotta: gli album essenziali del Quebec del periodo
yé-yé, le scatole per le canzoni, il country-western, il
rock, la discoteca stessa, sono tutti contenuti in questa
guida, intesa diventare un lavoro di riferimento. I 101
dischi che hanno segnato il Quebec coprono i successi di
Alys Robi e quelli di Tricot Machine, attraverso Michel
Pagliaro e i Colocs, con pari competenza.
(contributo fotografico
con immagini di Leonard Cohen scattate da Mariano Brustio,
Milano 1988-1993)
Mondo Vinile stili, mode e avanguardie musicali in un pick-up - Marco Tesei -(Editrice Zona - Genova 2019)
Da alcuni anni il disco in vinile vive una nuova primavera: apprezzato per il suono “imperfetto”, ovvero soggetto a lievi distorsioni e irregolarità che gli conferiscono un’immediatezza e una naturalezza – una “verità” – del tutto diverse dall’artefatta perfezione formale della musica digitale, la sua ri/scoperta riguarda non solo un manipolo di nostalgici agé, ma anche giovani e giovanissimi. Questo libro apre un’ampia finestra sul variegato mondo del vinile: storia, personaggi, saperi, tendenze, mercato, con tante interessanti curiosità. C’è tutto un mondo attorno al vinile, e questo libro ne raccoglie una qualificata rappresentanza. Interviste e contributi: Marta Boneschi, Massimo Bonelli, Massimo Gasperini, Filippo De Fassi, Mario Pezzolla, Massimo Cotto, Mimmo Locasciulli, Dario Mondella, Silvana Casato, Guido Giazzi, Rolando Giambelli, Giordano Criscuolo, Carlo Montana, Claudio Pescetelli, Bruno Casini, Mariano Brustio, Francesco Spampinato, Grazia Paganelli, Marco Biondi, Nicola Iuppariello, Riccardo Russino.
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Eugenio
-
racconto donato al progetto Pro Terremotati a cura di Gioia
Lomasti e Emanuele Marcuccio (2016)
Era sbarcato con il
suo brigantino di 24 metri quando già stava facendo buio.
Alla marina di Rimini si era formata la folla delle grandi occasioni.
Tutti ad ammirare quella barca tirata a nuovo e rimessa a lucido,
con le sue vele quasi ammainate. Il fiocco e il controfiocco
erano già abbassati e i due marinai stavano ormai impacchettando
la randa. Eugenio, con il suo cappello in testa, aveva acceso
il motore di servizio e stava facendo il suo ingresso trionfale
nello stretto canale per ormeggiare la sua barca. L’aveva
scovata in un cantiere nei pressi di Bastia e se ne era innamorato
subito. Tre lunghi anni di lavori
snervanti, fra tavole di legno e fasciami marci da sostituire
e interminabili viaggi a Monfalcone alla fabbrica di vele, per
trasformare in realtà quel sogno che lo aveva accompagnato
per tutta la vita. Con i soldi della liquidazione era riuscito,
ma lui diceva era stato un colpo di testa, a comprare quel legno
vecchio. Trent’anni di lavoro in quel quartiere di Milano, vicino
alla Schighera, e una medaglia d’oro che non valeva tutta la
fatica per la sua tanto agognata pensione. Avrebbe cenato sulla
terra ferma, un pasto frugale e veloce, prima di prendere l’auto
che aveva lasciato giorni prima e tornare al suo paese, fra
le colline laziali che si affacciavano all’Umbria. Era il luogo
che aveva dato il nome al piatto di pasta, famoso nel mondo,
tanto rinomato ed apprezzato da tutti. Il viaggio sarebbe durato
oltre tre ore, su quella sua vecchia Land Rover che suo fratello,
contadino ad Amatrice, gli aveva regalato quando ormai aveva
lasciato i campi alle ortiche, diceva lui, come aveva sentito
cantare da quell’artista genovese mezzo matto un po’ di anni
prima. Poco dopo Grottammare aveva lasciato l’autostrada, salendo
ed attraversando i paesi di Acquasanta, Arquata e si era fermato
ad Accumoli, a salutare il suo vecchio amico e compagno di lavoro
per quasi trent’anni. Battista lo aspettava sotto la torre,
un cartoccio sotto il braccio dove aveva conservato una forma
di pecorino, ed una bottiglia di vino nella mano. Come Eugenio,
si era ritirato al suo paese per godersi la pensione ed aveva
rimesso in sesto, con gran fatica, quell'antica vigna. Suo padre
possedeva un vitigno prezioso, il Sagrantino di Montefalco,
ma ormai la sua cantina e i vecchi torchi, da anni, non erano
più impreziositi da quel nettare. Battista, cocciuto
e fiero di quel poco che era stato conservato, era ritornato
al paese e senza quasi un giorno di riposo dopo l’ultimo lavorato
in fabbrica, per tre anni aveva lavorato giorno e notte, instancabile,
a curare quei tralci e raccogliere i primi grappoli. Quella
bottiglia fra le mani era un dono prezioso, il simbolo di un
ritorno alla vita, all’amore per quella terra che aveva lasciato
poco più che ragazzino. Si incontrarono quando ormai
le campane stavano battendo i rintocchi delle undici, notte
fonda in quel luogo di anime tranquille, anche in quella serata
di agosto. Non c’erano villeggianti. Erano tutti altrove. Solo
qualche decina di persone che era tornata al paese a salutare
i genitori o gli zii, e a controllare che quelle vecchie case
di pietra fossero ancora vivibili. Un abbraccio rapido e qualche
pacca sulle spalle, con la promessa che si sarebbero rivisti
qualche giorno dopo. Eugenio ripartì quando ormai scoccava
la mezzanotte, ripercorrendo quella strada sulla costa della
collina che tante volte era stata la sua compagnia nelle notti
insonni a Milano. La sua casa non era nel centro del paese,
ma poco fuori, vicino al Ponte a Tre Occhi. Una vecchio maniero
di campagna che suo fratello aveva abitato per anni, dopo che
i loro genitori erano mancati. Senza molte pretese, qualche
stanza con il soffitto di legno con grosse travi, una cucina
con il vecchio forno dove la loro madre per tanti anni aveva
cotto il pane, un porticato che dava sul cortile e una vecchia
rimessa dove ancora c’era il vecchio trattore. Parcheggiò
la sua Land Rover e raggiunse stremato la camera da letto. Non
ricordò nemmeno di essersi addormentato. La stanchezza
era così tanta che ogni pochi minuti si svegliava, udendo
il verso di qualche gufo e di qualche volpe che si aggirava
nei campi lì intorno. Aveva preso finalmente sonno che
fu svegliato da un boato che sembrava provenire dal basso. Per
qualche istante credette di essere ancora sulla barca e temeva
che un’onda avesse spezzato lo scafo, ma poi, improvvisamente,
fu sbalzato dal letto e ricadde sul tappeto lì accanto.
Con fatica cercò un interruttore per accendere le luci,
ma nulla, buio assoluto. Si affacciò alla finestra che
dava sul cortile, ma non gli riuscì di vedere nulla.
Poi una scossa del pavimento lo fece sobbalzare, le sue gambe
non lo reggevano, un tremore furibondo si stava impossessando
del suo corpo, mentre sentiva al piano di sotto, bicchieri e
piatti che cadevano. Il terremoto, pensò. Si precipitò
di sotto e afferrò al volo un paio di stivali che suo
fratello lasciava di solito nel portico, correndo verso il cortile.
Dopo pochi attimi quell’inferno pareva fosse finito. Intorno
alla sua casa non c’erano altre abitazioni. Nessuno cui chiedere
cosa potesse essere accaduto. Salì sulla Land Rover e
si diresse verso il paese, ma solo dopo qualche centinaio di
metri si accorse di non avere acceso i fari. Si fermò
e cercò sotto il volante l’interruttore e lo spostò
all’insù. Rialzò lo sguardo solo per vedere cumuli
di pietre, mattoni, case rase quasi al suolo. Si fermò
non potendo proseguire oltre e il silenzio assordante era ormai diventato
un vociare di urla, pianti e guaiti di animali. La notte si
era fatta chiara per la polvere che era sospesa nell’aria. I
pali della luce erano divelti a terra, i cartelli stradali schiantati
e sommersi da macerie. Non sapeva cosa fare, come muoversi,
dove andare. Correndo verso un muro crollato, intravide altra
gente, in pigiama come lui, che correva altrove. Poi si fermò
di colpo. Vide per terra una bambola fra i detriti e alzò
gli occhi, in alto verso la sua destra. Una casa era completamente
sventrata, il letto ancora al suo posto, le pareti abbattute.
Abbassò gli occhi verso la bambola e intravide una macchia
di colore fra i detriti. Allungò le braccia e prese quella
creatura che sembrava dormisse. I capelli fra gli occhi, una
manina chiusa a pugno, il pigiama macchiato di rosso. Nessuno
lì intorno. Scese da quel cumulo di macerie con quella
creatura fra le braccia e la adagiò su una fioriera di
legno, fra qualche ciuffo di geranio ancora in fiore. Stette
immobile senza poter far nulla, senza darsi una spiegazione
logica né un perché, sino a quando udì una sirena e un
automezzo che si fermò a pochi metri da lui. “Non ho
potuto far nulla, è morta fra le mie braccia”, disse
al vigile del fuoco che accorreva da lui. Era un ragazzotto
di poco più di vent’anni che tremava come una foglia,
spaventato e terrorizzato. Erano le cinque di mattina del 25
agosto, non c’era un filo di vento e da est cominciava a rischiarare
timidamente su quell’inferno di polvere e pietre. Dopo qualche
giorno, fra centinaia di persone che ormai erano accorse, seppe
da un cronista della televisione che Battista, su ad Accumoli,
era una delle vittime di quella sciagura che si era portata
via qualche altro centinaio di persone. Aveva salvato due persone,
ma per uno scherzo del destino che aveva truccato le carte a
suo sfavore, il solaio di una casa lo aveva schiacciato, senza
lasciargli scampo. Sul sedile della sua Land Rover c’era ancora
quella bottiglia di vino, il dono prezioso di un ormai tragico
ritorno alla vita.
"Discorso
sulle maggioranze e le minoranze"
Relazione durante il
convegno al
Centro Provenzale di Coumboscuro - 27 agosto
2022:
“Chi
lavora con le mani è un operaio, chi lavora con le mani
e con la testa è un artigiano, chi lavora con le mani,
con la testa e con il cuore è un Artista” (San Francesco
d’Assisi).
“Gli artisti, maledizione! Un intellettuale
integrato, poverino, io lo capisco: è uno che legge dentro
le righe e capisce quello che succede molto più degli
altri. Capisco che se non è artista, se non riesce a
trasformare quello che capisce in qualcosa d'altro che arriva
ancora meglio, deve integrarsi: l'artista è un anticorpo
che la società si crea contro il potere. Se si integrano
gli artisti, ce l'abbiamo nel culo!” (Fabrizio De André)
Mi chiederete a questo punto perché ho iniziato con queste
citazioni: semplice, o forse azzardato. Fabrizio De André è
stato un Artista, a mio giudizio con la definizione che ne diede
San Francesco d’Assisi. In tutta la sua Opera ci ha mostrato
un modo di approcciarci alle cose, alle situazioni della vita,
esplorandole da un punto di vista diverso e soprattutto con
il cuore, da una posizione che seppur comoda, (la sua vita è
stata quella di un piccolo borghese, come amava definirsi lui),
non mancava di avere più di uno sguardo verso chi non
aveva potuto beneficiare di quel filo della fortuna che forse
era capitato a lui. Verso tutti coloro meno fortunati e meno
integrati nella società.
Prendiamo ad esempio
una fra le sue prime composizioni: “La Città Vecchia”.
Qualcuno dice che gli sia stata ispirata da Umberto Saba. E
in parte potrebbe essere vero, se leggiamo solo gli utltimi
versi di entrambe le composizioni. Io invece preferisco pensare
che lui sia stato folgorato, diciamo così, dalle parole
di una poesia di Jacques Prevert: “Embrasse Moi”.
“È buio qui, manca l’aria
L’inverno come
l’estate è sempre inverno
Il sole del buon Dio non
splende qui da noi
Ha già troppo da fare nei quartieri
ricchi.”
“Nei quartieri dove il sole del buon Dio
non dà i suoi raggi, Ha già troppi impegni per
scaldar la gente d'altri paraggi”
è evidente
che questi versi siano stati scritti pensando ad un paio di
poveracci magari sul sagrato di una chiesa con un cappellino
per terra e le mani a chiedere soccorso, elemosina, oppure in
vicolo maleodorante dove avevano cercato riparo, non avendo
una casa comoda e calda. Non certo per il sindaco del borgo,
senza nulla togliere. Insomma, non proprio la Maggioranza delle
persone.
Mina nel tardo 1967 ha inciso la “Canzone di
Marinella”, regalando a Fabrizio quella notorietà di
cui ha goduto per tutta la sua vita. E per combinazione questa
canzone è stata proprio l’ultima incisione di Fabrizio
De André, guarda caso proprio nel famoso duetto con Mina. Conosciamo
forse tutti la trama della canzone, di quella prostituta uccisa
e gettata in un torrente, non importa nemmeno poi tanto qule
torrente o fiume. Ebbene stiamo parlando di una prostituta che
agli occhi della “gente”, dico la Maggioranza della gente, qualla
che Georges Brassens definiva “Les Braves Gents” (ma
alle brave persone non piace che seguiamo una strada diversa
dalla loro) non gode di particolare attenzione e considerazione,
proprio per il mestiere che ha scelto, o in tanti altri casi, è
obbligata a fare, e non certo, almeno nella stra-grande maggioranza
dei casi, dalla famiglia, bensì da una maggioranza che
si arroga il potere di vessare e sfruttare persone come lei.
Per fortuna Fabrizio ha avuto l’illuminazione di regalarle almeno
una morte decente.
Mi piace ricordare i versi di Francois
de Malherbe 1555-1628, forse ispirazione per alcuni versi della
canzone:
“Ma lei era del mondo dove le più belle
cose
Hanno il peggior destino:
Da rosa ha vissuto quanto
vivono le Rose,
Lo spazio d’un mattino.”
Curiosamente
proprio De André in alcuni casi modificava alcune parole della
canzone, cantandoli in questo modo: il verso “ma lui che non
ti volle creder morta…” diventava in maniera più sprezzante
nei confronti del potere della maggioranza “e invece tutti
vennero a sapere, ti aveva dato un calcio nel sedere”,
a rimarcare proprio il “corpo-oggetto” buttato via dall’arroganza
di un potere superiore. E allora la figura della Rosa che ha
vissuto almeno un mattino come nella poesia di Francois de Malherbe,
ne addolcisce la morte, divenendo nei versi colei che ha vissuto
almeno un giorno come l’immenso splendore delle rose.
Se volessimo poi addentrarci ancora nell’argomento “prostitute”
non potrei fare a meno di citare il brano Brave Margot di Georges
Brassens, il suo grande Maestro, dove le comari del paesino
si avventarono sulla povera giovinetta Margot, ben più
avvenente di tutte loro, che aveva attirato tutti gli sguardi
degli uomini del paese. In poche parole la Bocca di Rosa di
De André, scacciata dal paese da una Maggioranza bigotta.
Ancora nel brano in genovese “A Dumenega”, è ben
più evidente lo scherno della intera popolazione nei
confronti delle prostitute che avevano accesso libero alla città
nel solo giorno della domenica e, che seppur schernite dalla
intera popolazione benestante dell’epoca e dal comandante del
porto, per via della loro “professione”, contribuivano regolarmente
e per espressa delibera del comune alle casse cittadine e al
porto. Tanto quanto le anziane prostitute di Venezia, Minoranze
relegate ormai vecchie e decrepite alla “Ca’ Rampana” per decisione
del doge e di tutto il consiglio. Ovvero le Maggioranze del
tempo, che concedevano loro il permesso del soggiorno, seppur
con il pagamento dell’obolo per l’affitto.
Per non parlare
del Carlo Martello, L’autorità suprema delle Maggioranze,
che dopo essersela spassata se la svigna lasciando la poveraccia,
simbolo dei soprusi commessi verso le minoranze, sola e senza
il corrispettivo richiesto per la sua prestazione d’amore.
Cambiando argomento, forse non tutti hanno colto la ribellione
dell’impiegato, ovvero di una Minoranza che deve essere per
forza silenziosa ed obbediente, che nel suo sogno di vendetta
getta la bomba sui gradini del tribunale sbagliando bersaglio,
elencando dapprima tutte le Autorità e quindi le Maggioranze
presenti “Al Ballo Mascherato”, sino alla frase “adesso puoi
togliermi i piedi dal collo e ti riporto a conversare con i
tuoi simili al ballo delle celebrità”, poi alla fine
mi toglierà lo sfizio di gettare la bomba.
Ancora
in “Amico Fragile”, la ribellione silenziosa di fronte agli
amici altolocati del padre che vorrebbero costringere l’Artista
ad imbracciare la chitarra e suonare per allettarli, un po’
come nei salotti romani di un tempo dove l’Artista era solo
l’accompagnatore giullare delle serate della buona borghesia.
Ma per nostra fortuna ne è nato un capolavoro, uno fra
i tanti di Fabrizio De André.
Per ritornare ai Francesi,
Villon scrisse la Ballata degli Impiccati e De André ne ricalcò
una immagine che recita un po’ in questo modo:
“noi
derelitti e prossimi all’impiccagione scivolammo nel gelo di
una morte senza abbandono recitando l'antico credo di chi muore
senza perdono: chi derise la nostra sconfitta e ci sparse la
terra sulle ossa riprendendo tranquillo il proprio cammino,
giunga anch’egli un giorno stravolto alla fossa”.
Perdono
da chi? Perdono da chi ha giudicato dalla sua posizione di Maggioranza
autoritaria, deridendo il povero derelitto, che fa parte di
una Minoranza obbligatoriamente silenziosa a causa forse dei
presunti errori commessi. Il rifiuto dell’autorità si
fa molto evidente, così come l’anarchismo spesse volte
dicharato. Ma nella sua etimologia greca, anarkhía, ovvero assenza
di governo e quindi di autorità.
Come non citare
che “le nozze vanno avanti, per la gente bagnata e per gli dei
dispettosi”, mutuata dalla traduzione di Georges Brassens di
quei due poveracci che andarono sposi sul carro da buoi, non
su una cazzozza dorata seguita dai ricchi signori rappresentanti
di una ricca borghesia, già allora di una Maggioranza
che si arrogava persino il potere del benessere.
Per
arrivare più tardi alla figura del secondino in adorazione
del capo della camorra cui serve diligentemente il caffè
nella sua cella, e a cui chiede aiuto dalla sua posizione che
ritiene subalterna, per far bella figura allo sposalizio della
figlia. Senza tralasciare l’impunità che il ruolo della
politica garantisce ad una Maggioranza di potere (per questi
i fetenti si tengono l’immunità) cui tutto è permesso,
persino di rubare e di arricchirsi sul costo delle lenzuola
da distribuire nelle carceri a quei poveracci che, sì
hanno sbagliato, ma non per questo debbono essere trattati come
animali.
Non tralasciando nemmeno la figura della Pittima,
una fra le tante minoranze vessate, che pur nella sua condizione
di riscossore di qualche debito di denaro, non ha timore di
farne richiesta alla luce del sole, rimarcando forse che quelle
Maggioranze che godono la loro bella e gioiosa esistenza, forse
lo fanno con i beni altrui, non di certo meritati.
Capitolo
di certo più interessante è quello della lingua:
la canzone cantata nel dialetto (il genovese) che la Maggioranza
dei genovesi non riuscì a capire. Perché scritta in una
lingua arcaica mutuata dai vocabolari del Casaccia del 1850
e dagli scritti ottocentesci che la Maggioranza oggi ignora.
E proprio il diverso punto di vista di De André ci ha permesso
di goderne la musicalità dei versi e delle parole.
“Oh Signore! Accogli le preghiere di questo povero supplicante
e concedigli di morire avvolto nella polvere delle città,
addossato alle grandinate di una casa infame e illuminato da
tutte le stelle del firmamento. Ricorda Signore che il tuo servo
ha osservato pazientemente le leggi del branco. Non dimenticarne
il suo volto. Amen!”
“Quando Maqroll terminò
la sua invocazione restammo un momento in silenzio. V’era in
essa una così profonda virtù marinara che ci fece
sentire estranei e lontani da quel mondo che, in realtà,
era il suo e lo sarebbe stato fino alla fine dei suoi giorni.
Per l’incanto delle parole di questa smisurata preghiera, ci
rendemmo conto che il passaggio del Gabbiere al sotterraneo
mondo delle miniere era stato come una condanna che si era imposto
per scontare chissà quali oscuri errori e mancanze nei
propri doveri”. (Alvaro Mutis)
Da questi passaggi
e da altre opere di Alvaro Mutis sono tratte le ispirazione
che hanno portato alla composizione di Smisurata Preghiera,
come diceva De Andrè stesso:
“Raccontato così
il disco (Anime Salve) sembrerebbe incentrarsi soltanto sul
problema delle Minoranze emarginate. Credo sia riduttivo considerarlo
così. Credo che queste persone singole o questi gruppi
di persone proprio difendendo il loro diritto a rassomigliare
a se stessi senza far male a nessuno, difendono in fin dei conti
la loro libertà. Una libertà conquistata attraverso
il disagio della solitudine. La solitudine che porta anche a
delle forme di libertà straordinarie: è faticosa,
sicuramente, soprattutto quando la si vive come emarginazione
e non come scelta personale. Emarginazione a sua volta dovuta
a comportamenti da parte di singole persone o di gruppi di persone
difformi dai comportamenti della Maggioranza degli esseri umani”.
Le Maggioranze che esercitano l’emarginazione nei confronti
delle Minoranze, gli zingari ad esempio, che come De André diceva:
“E’ quindi un popolo che gira il mondo da più
di 2000 anni, afflitto o affetto – io non so come meglio dire,
ma forse semplicemente affetto – da quella che gli psicologi
chiamano “dromomania”, cioè la mania dello spostamento
continuo, del viaggiare, del non fermarsi mai in un posto. È
un popolo, secondo me, che meriterebbe – per il fatto, appunto,
che gira il mondo da più di 2000 anni senza armi – meriterebbe
il premio per la pace in quanto popolo”.
E che ha ispirato
a Fabrizio quella canzone “Khorakanè” che proprio
si rifà anche a tradizioni in questo caso gitane descrivendo
la festa degli zingari che due volte all’anno avviene in Provenza,
a Les Saintes Marie De La Maire nel sud della Francia.
E veniamo al provenzale, spero mi permetterete di farlo
anche un po’ mio, essendo almeno vostro corregionale. Per inciso,
sono cresciuto ed ho vissuto in un borgo in piemontese dove
non si parla il “piemontese” o il “torinese” ma un dialetto
che non esiste in nessun altro paese del Piemonte, che sa un
po’ di antico Gallico e Francese.
Fabrizio anni fa,
credo nel 1993 in una intervista ad un quotidiano, ebbe a dire:
“Quando mi hanno proposto di cantare con i Troubaires
de Coumboscuro, devo essere sincero, ignoravo io stesso che
in Italia ci fosse una minoranza linguistica provenzale. I miei
ricordi andavano a quei Trovatori “trovati” distrattamente sui
libri scolastici e poi su numerose pubblicazioni che mi sono
passate per le mani negli. Infondo il mito del Cantore errante,
della poesia spacciata per popolare, che popolare non era, perché
nessuno sapeva scrivere fra il popolo nei primi secoli del 1000,
mi ha sempre attratto.”
Ne è nata una re-interpretazione
di un brano piemontese o provenzale che come tutti sappiamo
ha inciso proprio con I Troubaires de Coumboscuro.
Un brano dalla dolcezza immacolata che per qualche sconosciuta
ragione doveva trovar posto sull’ultimo album “Anime Salve”
di De André, ma che poi per ragioni di spazio, mi ha raccontato
proprio Ivano Fossati, non è stato possibile aggiungere
all’ultimo capolavoro. “Bello Caio”, in origine poi
diventato quel “Mis Amour” che se anche le Maggioranze
linguistiche italiane non capiscono del tutto, non importa poi
tanto, importa ascoltare la dolcezza dei versi e della musica
che gli fa da sottofondo.
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Relazione per il convegno
Lions Club Sesto Somma Host 26 settembre 2023 |
Il plurilinguismo nella musica popolare e colta |
Introduzione
“Per
scambiare le proprie opinioni o per commerciare patate è
utile che ognuno di noi conosca la lingua dell’acquirente. Per
esprimere creatività è indispensabile che ognuno
di noi si serva della propria lingua. Non c'è il gusto,
il tempo, per inventare la lingua, per divertirsi a inventare
le frasi, fatto che invece è rimasto nei piccoli centri
dove ancora si parlano, appunto, i cosiddetti dialetti, gli
idiomi locali”.
Parola di Fabrizio De André.
Esperanto
Tutti conosciamo il tentativo,
direi fallimentare, sin dalla seconda metà dell’800,
dell’invenzione dell’Esperanto come lingua che sarebbe dovuta
diventare universale. Ne sono state create alfabeti e regole
sintattiche, articoli, pronomi, proposte per diventare la lingua
ufficiale dell’Unione Europea, ma sino ad oggi senza successo
e niente affatto conosciuta né divulgata. Per tornare a noi,
la lingua italiana quindi continua ad essere vivace da molti
secoli a questa parte, proprio per il fatto che si nutre di
questi idiomi locali, tanto è vero che quando ci incontriamo
di fronte ad una frase particolarmente divertente, spiritosa,
ingegnosa, diciamo: ‘Eh beh, questa sì, è una
frase idiomatica’. È soltanto per questo motivo che questi
dialetti locali, non fosse altro che per fornire di qualche
cosa di inventivo e di nuovo alla lingua nazionale, tutti ci
auguriamo che continuino a resistere e ad esistere.
Folklore e dialetto-una doverosa distinzione
Desidero quindi fare una distinzione fra la canzone folkloristica
della tradizione popolare, spesso alimentata da testi dialettali,
e la tradizione dei cantastorie, antesignani di coloro che oggi
sono chiamati cantautori, mutuando il termine dalla prima apparizione
pubblica sulla scena di un cantante-autore dei propri testi
e della propria musica: mi riferisco a Domenico Modugno e alla
sua “Nel blu dipinto di blu”, alias “Volare”, presentato nel
1958 a Sanremo. La storia ormai vuole che sia la canzone italiana
più diffusa e conosciuta in tutto il mondo, ma che si
contente il primato con una canzone italiana dialettale napoletana
di cui parlerò più avanti.
Le mondine
Per tornare alla tradizione popolare-dialettale della trasposizione
in musica-canzone, forse il brano più conosciuto a livello
nazionale che potremmo datare fra il diciannovesimo e ventesimo
secolo, è il canto delle mondine novaresi e vercellesi,
“Sciur padrun da li beli braghi bianchi”. Non a caso la prima
rappresentazione, ovvero la trasposizione in pubblica esecuzione, è
dovuta proprio ad una mondina novarese di origine mantovana,
(o viceversa) Giovanna Daffini, che la portò nei teatri
e nelle piazze negli anni ‘60. Fu tra i protagonisti maggiori
del Nuovo Canzoniere Italiano che già dagli anni ’60
si proponeva il recupero di testi e ballate popolari - dialettali
al quale aderirono artisti come Enzo Jannacci, Caterina Bueno,
Milly, Fausto Amodei, Nanni Svampa, solo per citare qualche
nome di spicco.
Seguirono la versione più nota di
Gigliola Cinquetti, ma anche da Sandra Mondaini e Anna Identici,
e forse l’ultima citazione è addirittura nel testo di
un brano di dieci anni fa, nel 2013, ad opera di Elio e le Storie
Tese. Questo per far comprendere l’attualità nel testo-canzone-dialettale.
Potremmo definirlo uno fra i primi canti di rivendicazione sociale:
Signor padrone con i pantaloni bianchi immacolati, abbiamo
lavorato per te, adesso dacci il nostro denaro che prendiamo
il treno alla stazione e ce ne vogliamo andare lontano da qua.
In realtà esiste una variazione meno conosciuta:
“Sior
padrù de l'urelòc”,
Signore e padrone dell'orologio,
quando arriva l’ora tarda e il sole è al tramonto, mi
fai l'occhiolino… Signor padrone con le braghe a righe facciamo
in fretta allora, che poi torniamo a casa.
E ogni riferimento
all’ora tarda è fin troppo intuibile.
Bella
Ciao
E non posso fare a meno di citare la “Bella
Ciao” delle mondine, che seppur non sia una canzone scritta
in dialetto, nacque anch’essa fra le risaie del novarese, si
dice intorno al 1905-1906 e ovviamente come spesso accade per
questioni di rivendicazioni paternalistiche, c’è chi
sostiene che sia anteriore alla più nota “Bella Ciao”
della resistenza e chi invece, in maniera decisamente, direi
partigiana, ne attribuisce la nascita nel quinquennio della
seconda guerra. Bella Ciao ha avuto ed ha tuttora un successo
mondiale negli spettacoli di Goran Bregovic e conosciuta in
Francia per la versione che ne fece Yves Montand. È forse
una delle canzoni italiane maggiormente conosciute in tutto
il mondo competendosi il primato con la già citata “Volare”.
Non posso non ricordare la bonifica della lingua italiana,
messa in opera nel ventennio mussoliniano, e lo definisco così
come la storiografia ce lo racconta, perché proprio Mussolini
volle che venisse eliminata qualsiasi parola dialettale e addirittura
desinenze straniere dalla lingua italiana, con la riforma della
scuola del 1923 conosciuta come riforma Gentile, ministro della
pubblica istruzione del primo governo Mussolini. La proibizione
all’uso del dialetto durò sino al 1943.
Napoli e la Campania
Torniamo alla canzone
popolare dialettale. La rinascita della tradizione popolare
dialettale, riprese vigore quindi a partire dagli anni 50 più
o meno in tutte le regioni italiane. Le citazioni maggiori riguardano
tutte le regioni, soprattutto la tradizione napoletana, che
vede la nascita della Nuova compagnia di canto popolare, fondata
da Carlo D’Angiò, dal nome sicuramente nobile, insieme
a Eugenio Bennato.
Artisti popolari come Teresa De Sio,
Peppe Barra si unirono in un secondo tempo. Nella tradizione
dialettale napoletana come non citare le prime composizioni
di Pino Daniele, la sua “Napule è” composta all’età
di 18 anni: è una denuncia di odio e amore verso una
città piena di contraddizioni, indifferenza e paura,
ove l’unica via d’uscita o di riscatto è una vincita
al lotto per fuggirne lontano.
Ma tornando a qualche anno
prima, unica eccezione all’ostracismo mussoliniano ormai decaduto
da un anno, è la notissima canzone “Tammurriata nera”
composta nel 1944, storia presumibilmente vera, anzi vera al
100%, e quindi riconducibile alla tradizione dei cantastorie,
(ovvero di coloro che prendendo spunto da una notizia vera,
la diffondevano su arie musicali orecchiabili) che narra di
un bambino di colore dato alla luce in quell’anno, presumibilmente
da un soldato americano. Tanto popolare e famosa da essere annoverata
fra il repertorio di Renato Carosone e Roberto Murolo. Interprete
il primo di brani dialettali, pseudo italianizzati, ma anche
di brani in inglese, era più musicista che paroliere
attento all’uso del dialetto, seppur i suoi brani siano tuttora
apprezzati e cantati in tutto il mondo. Roberto Murolo dal canto
suo fu molto attento alla tradizione scritta sia popolare-dialettale
che compositiva, fu apprezzato da tutto il mondo cantautorale
attuale (famosi i suoi duetti con Mia Martini) sino ad una apparizione
pubblica in un concerto del 1°maggio a Roma accanto proprio
a Fabrizio De André, che a sua volta lo omaggiò incidendo
su disco una delle sue canzoni, “La Nova Gelosia”. La performance
pubblica di Roberto Murolo e Fabrizio De André è una
canzone-satira in finto napoletano che narra di un camorrista
incarcerato visto in TV nella gabbia degli imputati con il cappotto
cammello e rispettato dagli altri imputati, anzi adulato da
un secondino pieno di attenzioni e favori nei suoi confronti.
La canzone si intitola Don Raffaé. Singolare fu lo scambio di
lettere che Raffaele Cutolo, riconosciutosi nel testo della
canzone, inviò a Fabrizio De André stesso come ringraziamento
per la citazione, a suo dire, d’onore, ma a cui Fabrizio De
André non rispose, disse per deficienza di convenienza. Il figlio
di Raffaele Cutolo, per inciso fu “giustiziato” a Tradate nel
1990, dove era in soggiorno obbligato.
Che dire poi del
testo di “O sole mio”. Composta alla fine del 1800 è
universalmente conosciuta con interpreti quali Enrico Caruso,
il vero traghettatore della canzone dialettale nel mondo, e
di Luciano Pavarotti, sino alla traduzione in inglese che ne
fece Elvis Presley. Si tratta di una delle poche, forse unica
traduzione in altra lingua di una canzone popolare dialettale.
La fortuna universale della canzone volle però che i
due autori, che non ne poterono rivendicare il diritto, morirono
poveri, un caso anomalo di Artisti Maggiori rimasti in bolletta...
Leggenda vuole anche che il testo fosse dedicato ad una nobildonna
di Oleggio in provincia di Novara, Anna Maria Vignati Mazza,
che aveva seguito il marito deputato del Regno d’Italia a Napoli.
Puglia
Per rimanere nella tradizione
musicale del sud Italia, la Puglia ancora oggi vede la rappresentazione
ormai da molti anni della tradizione della pizzica e della tarantella
nella “Notte della Taranta”, celebrata da tutti i maggiori artisti
italiani e stranieri. Credo a ragione che sia la maggior rappresentazione
della trasposizione in musica della tradizione popolare che
ha coinvolto artisti da tutto il mondo. Goran Bregoviæ, bosniaco,
Ludovico Einaudi, Mauro Pagani, Piero Milesi, Fiorella Mannoia,
Steward Copeland statunitense dei Police, Phil Manzanera britannico
di Londra fondatore dei Roxy Music, sono solo alcuni dei maestri
concertatori.
Calabria
Va segnalata
forse una delle poche canzoni dialettali calabresi di rilievo
nazionale interpretata da Ornella Vanoni che risale al 1958.
Si tratta del testo anonimo della “Canzone dei carcerati calabresi”.
Un’altra interpretazione a cura di Davide Bernasconi, di cui
rivelerò più avanti il nome d’arte, è canzone
con testo italiano-calabrese, ma anche greco “Dove il mare non
basta”. Non ultima, l’interpretazione di Mia Martini, calabrese
di nascita nella canzone “Lucy”, dove le due strofe in dialetto
recitano la filastrocca che il nonno dell’artista raccontava
a lei ed alle sorelle. E infine la canzone del calabrese cosentino
Otello Profazio nella canzone “Melissa” un testo sulla strage
del 1949 ad opera della polizia dell’allora ministro Mario Scelba
nel governo De Gasperi.
Sicilia
La
Sicilia è invece ricca di tradizioni popolari trascritte
in canzoni spesso d’autore. Franco Battiato, forse il maggior
interprete contemporaneo, già dal 1979 nel suo famoso
album “L’era del cinghiale bianco” inserì una canzone
popolare in siciliano, “Stranizza d’amuri”.
Ma forse la
maggior artista della tradizione siciliana è Rosa Balistreri.
Collaborò con Dario Fo e negli anni settanta incise in
dialetto siciliano canzoni poi riprese da Carmen Consoli, catanese,
e venne ricordata recentemente in uno speciale Rai con testimonianze
di Andrea Camilleri, Otello Profazio e da Leo Gullotta, anch’egli
catanese. A lei si devono decine di canzoni popolari-dialettale
interpretate sino agli anni ’90 e poi riprese successivamente
da decine di artisti.
Sardegna
Per
saltare a piedi pari in un'altra isola, l’interprete più
acclamata e conosciuta della terra sarda è sicuramente
Maria Carta. Ha collaborato con Angelo Branduardi, (varesotto
della Valcuvia per adozione), Andrea Parodi leader dei Tazenda,
Franco Simone di Arona, Severino Gazzelloni, famoso violinista,
e molti altri artisti italiani e stranieri. Maria Carta è
una delle poche artiste popolari tradizionali dialettali ad
aver partecipato ad importanti festival canori all’estero, insieme
appunto ad artisti internazionali, cito Amalia Rodriguez, ad
Avignone, a New York, a San Francisco.
Il “Ballu tundu”
sardo deve anche a lei la conoscenza universale. A lei si deve
inoltre l’interpretazione della “Ave Maria-Deus ti salvet Maria”
composta in sardo logudorese nel diciassettesimo secolo, presentata
a Canzonissima nel 1974 che le diede il secondo posto nella
classifica canora.
La canzone in dialetto sardo (ma esistono
varie lingue sarde, dal logudorese al barbaricino, il campidanese
e il nuorese) è stata ripresa da decine di altri artisti,
fra cui i Tazenda e Fabrizio De André. Di quest’ultimo ne parleremo
dopo. Accenno solo le sue canzoni in sardo barbaricino alcune
delle quali hanno fatto sorridere per la dissacrazione di detti
popolari sardi. Altre in lingua italiana narrano delle tradizioni
popolari sarde.
I Tazenda, altro gruppo sardo, videro Andrea
Parodi interprete delle tradizioni sarde portate alla ribalta
nei teatri nazionali, a Sanremo ad esempio nel 1992, con la
canzone “Pitzinnos in sa gherra” scritta da Fabrizio De André
che comparì a fatica nei titoli e fra gli autori, ed
in un’altra occasione i Tazenda collaborarono con Pierangelo
Bertoli.
Emilia-Romagna - Modenese
Di quest’ultimo (Pierangelo Bertoli) vorrei ricordare l’album
in dialetto modenese “S’at ven in meint”, con la partecipazione
in un brano di Caterina Caselli, oggi affermata imprenditrice
del mondo discografico. Questo per sottolineare la presenza
costante delle proprie origini andando anche contro una certa
sorta di industria discografica che per alimentarsi non vedeva
di certo di buon occhio la presunta scarsa diffusione che avrebbero
avuto opere dialettali. Smentiti proprio dal successo popolare
mondiale della metà degli anni ’80 dall’album “Creuza
de ma” di Fabrizio De André.
Roma e il Romanesco
Gabriella Ferri, Gita a li castelli
Antonello Venditti, Roma
capoccia
Alberto Sordi, M’andò vai
Nino Manfredi,
Tanto pe’ cantà
Lando Fiorini, Roma nun fa la stupida
stasera
Gigi Proietti, Nun je da retta Roma
sono solo
alcuni degli artisti romani o quantomeno laziali che hanno tramandato,
cantato e reso popolari gli stornelli in romanesco. Fra questi
esiste un’eccezione unica.
Eccezione
Non ho trovato alcuna canzone popolare dialettale ritradotta
in Italiano se non, appunto come unica eccezione, il brano tradizionale
friulano reso celebre dal Coro della Sat, l’altrettanto celebre
coro alpino. Francesco De Gregori è stato forse l’unico
artista a tradurre e interpretare in Italiano il famoso brano
“Stelutis Alpinis” seppur con licenze di traduzione che a modo
suo ne valorizzano il testo. È forse l’unico tentativo
di riappropriazione nella lingua italiana di un testo tradizionale
dialettale. Tanto di cappello al Principe.
Veneto
“La biondina en Gondoleta”, “Me compare Giacometo”, “A porto
Marghera” sono solo alcuni titoli popolari della trascrizione
dialettale veneta. Un accenno colto, ma di scarsa conoscenza,
sono alcune interpretazioni di Massimo Bubola, l’autore veronese
della famosa canzone di Fiorella Mannoia, “Il cielo d’Irlanda”.
In dialetto veneto ha interpretato “La ballata del ciel che
s’ sbrega”.
Toscana
Poche interpretazioni
nel dialetto di Toscana da parte di artisti maggiori, se non
qualche brano a cura di Caterina Bueno, artista fiorentina scomparsa
prematuramente che tenne a battesimo un giovane Francesco De
Gregori che l’accompagnava alla chitarra e a cui De Gregori
stesso dedicò la sua canzone “Caterina”.
Lombardia - Dario Fo
Capitolo a parte è
doveroso soffermarci sulle tradizioni lombarde. Dario Fo, nativo
di Sangiano, nel 1962 scrive una bozza di una commedia dal titolo
“La passeggiata della domenica”, che vedrà le scene solo
qualche anno dopo. Scrive anche le parole di un testo in milanese
che si chiama “La mia morosa la va a la fonte”.
(Ho avuto
queste informazioni direttamente da Mattea Fo, nipote di Dario
Fo e presidente della Fondazione Fo). La musica viene scritta
da un artista genovese che faceva parte della compagnia, tale
Oscar Prudente, amico di un certo Luigi Tenco. E successivamente
grande coautore di molte canzoni di Ivano Fossati. L’interpretazione
della canzone viene affidata in un primo tempo a tale Enzo Jannacci,
medico in erba che si dilettava di musica e teatro, ma in scena
sarà lo stesso
Oscar Prudente a cantarla. Alla prima
dello spettacolo inaspettatamente era presente in sala Fabrizio
De André che nei camerini a spettacolo finito chiese a Dario
Fo “chi è quel tale che ha cantato quella canzone, posso
prenderne la musica?”. Dario Fo non si fece problemi a dire
sì, senza interpellare Oscar Prudente e l’anno dopo Fabrizio
De André pubblica un disco genericamente intitolato “Volume
1”, all’interno del quale c’era, e c’è tuttora, una delle
sue maggiori canzoni di successo dal titolo “Via del Campo”.
La morosa che va a la fonte con la sidela piena d’acqua, il
secchio in mano e che le fa ballare l’anca, solleticando le
fantasie di tanti ammiratori, nella canzone di Fabrizio De André
diventa una bambina che fra i carruggi genovesi si vende per
denaro.
Saltiamo per un attimo ad altri artisti milanesi
e lombardi che hanno trascritto ballate popolari e dialettali
passate ormai alla storia. Dalla “Bella Gigogin” a “La mia bela
Madunina”, “Ma mi” canzone della mala di Ornella Vanoni, da
Nanni Svampa, Lino Patruno, i Gufi, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci,
Cochi e Renato, ci sono decine e decine di canzoni milanesi
dialettali diventate popolari in tutta Italia. È impossibile
citarle tutte.
Nanni Svampa
Fra
le tante però, vorrei parlare di Nanni Svampa, guarda
caso anche lui frequentatore del varesotto sino alla sua dipartita,
perché ha tradotto in milanese un artista francese molto popolare:
Georges Brassens. Questo artista francese che ha venduto ben
più di Aznavour usava nei suoi testi dissacratori un
linguaggio particolare: l’Argot. Una sorta potremmo dire di
dialetto della mala francese, un linguaggio per certi versi
incomprensibile nella traduzione letterale. Fatto di parole
tronche e accenti aritmici. Potremmo definirlo una sorta di
codice irregolare della mala. Faccio a questo punto un inciso
riportando una dichiarazione di Fabrizio De André all’indomani
della morte di Georges Brassens nel 1981:
"Brassens
per me è stato un mito, come artista e come uomo. Mi
sono accostato all'anarchismo per merito di Brassens, perché
avevo di fronte non pura teoria, ma un esempio vivente. Brassens
ha avuto un'enorme influenza su di noi, voglio dire su quel
gruppetto di genovesi che voleva far canzoni in modo nuovo.
In modo particolare ha influito su Gino Paoli e su di me. Era
un modello nitido, rappresentava il superamento dei valori piccolo-borghesi. È
stata una fatica enorme tradurre Brassens in Italiano. Lui si
serviva molto dell'Argot, che da noi non ha corrispettivo. L'Argot
lo parlano a Parigi come nel sud. Da noi esistono tanti dialetti,
non un gergo comune. Ho dovuto riadattare l'italiano all'Argot,
reinventando espressioni e termini non esistenti nel linguaggio
corrente".
Figlio del vicesindaco di Genova,
nonché fondatore della Fiera del Mare, oggi Salone Nautico,
nonché presidente dell’Eridania Zuccheri e del Resto del Carlino,
Giuseppe De André, fratello di Mauro De André prematuramente
morto in Brasile, era allora l’avvocato di fiducia di Raul Gardini,
sostituito nelle sue funzioni di avvocato da Sergio Cusani,
Fabrizio De André deve la sua fortuna compositiva e popolare
a questo artista francese anche per il modo controcorrente di
affrontare temi molto discussi (la pena di morte, la prostituzione,
la miseria), senza mai dare un giudizio nei suoi testi e traduzioni,
ma lasciando all’ascoltatore la possibilità di trarre
una propria opinione fornendo un punto di vista differente dalle
maggioranze.
Tornando a Nanni Svampa, questo artista
nel 1965 si è addentrato nella traduzione in milanese
dei testi di Georges Brassens. Per far capire la dissacrazione
nei testi tradotti appunto in milanese, dal francese citerò
solo
“El bamborin de la miee d'on ghisa”, “L’ombelico
della moglie di un poliziotto”. Ho visto tanti ombelichi, ma
mai quello della moglie di un poliziotto. Mi voglio togliere
questa soddisfazione prima di partirmene. Se ne intende bene
il seguito del testo. Oppure la canzone tradotta in milanese
“El gorilla”, “Il Gorilla”, che scappato dalla gabbia spera
di togliersi la verginità correndo dietro dapprima ad
una vecchietta, ma poi invertendo la rotta verso un giudice
con la toga che sul più bello gridava ‘Mamma salvami’,
come il tale che il giorno prima aveva condannato alla ghigliottina.
Alcune traduzioni di Georges Brassens sono state fatte,
come già riportato dalle sue stesse parole, da Fabrizio
De André in Italiano, in maniera forse più edulcorata,
ma non meno significativa.
Davide Bernasconi
Senza e per nessuna ragione tralasciare e tornare a parlare
di un certo già citato Davide Bernasconi. Artista che
ha saputo conciliare il dialetto con arie scozzesi, celtiche,
intrise di rock e reggae mescolate ad arie del dialetto comasco
del tutto estraneo a qualsiasi operazione commerciale, intesa
dal punto discografico che lo ha ripagato comunque di successo,
specialmente di apprezzamenti della critica musicale italiana
colta. Il suo nome d’arte è Davide Van De Sfroos.
Piemonte
Fra le tradizioni dei cantastorie
piemontesi Gipo Farassino è sicuramente l’artista che
nel suo repertorio annovera il maggior numero di testi tradizionali
dialettali.
“Le canssôn d' Porta Pila” ovvero Porta Palazzo,
scritte e cantate in torinese si rifanno ad antiche filastrocche
della tradizione popolare. Potrei citare Costantino Nigra che
a cavallo dell’800 e del 900 scrisse una intera antologia dei
testi piemontesi “I canti popolari del Piemonte”. E per rispetto
alla mia natalità, vorrei citare due raccolte di canzoni
popolari nel dialetto di Galliate, in provincia di Novara. Un
dialetto unico, né piemontese né lombardo, molto simile al francese
gallo-celtico, che trasse origine al tempo della spedizione
di Annibale contro i Romani quando con i Galli e gli Insubri
si insediarono sulle rive del Ticino, fra Galliate e Turbigo.
Ebbene, tre volumi con le parole dialettali commentate e spiegate
con traduzioni in Italiano e due raccolte su dischi eseguiti
con l’accompagnamento della Corale di Santa Cecilia, al tempo
diretta da un direttore dal quale ho ereditato il cognome, mio
padre.
Provenzale
Un altro brano
della tradizione popolare dialettale piemontese si intitola
“Bello Caio”.
Cantato in lingua provenzale antica, fu inciso
da Fabrizio De André con un gruppo piemontese della Val Grana,
precisamente a Sancto Lucio di Coumboscuro in provincia di Cuneo.
Ha assunto il titolo di “Mis Amour” – “I miei Amori”, ed è
stata incisa su disco negli anni 90.
Si tratta di una antica
canzone provenzale rimasta per anni dimenticata, sino a quando
venne riscoperta e un paio o più di strofe vennero ricantate
appunto con Fabrizio De André.
Ho avuto il privilegio di
avere il dono del testo completo di oltre nove strofe appuntate
specialmente sulla pronuncia provenzale dagli stessi trascrittori
e lo conservo con altri manoscritti inediti.
La canzone
doveva far parte del suo ultimo disco “Anime salve” ma non trovò
spazio fra i solchi del vinile.
Liguria
Torniamo a parlare della scuola genovese del cantautorato, che
non solo annovera artisti che hanno cantato in Italiano, ma
una moltitudine di canzoni in genovese e ligure, derivanti dalla
tradizione popolare che in tutta la Liguria ha un seguito ancora
oggi molto nutrito.
“Ma se ghe penso” ‘rivedo il mare, la
Lanterna, i monti, la Genova illuminata e la Foce e allora penso
di tornare, a posare lì le mie ossa e a formare di nuovo
il mio nido’. La canzone di chi Genova l’ha lasciata per espatriare.
Gino Paoli, Mina, Gilberto Govi fra gli interpreti. “A Seissento”
di Piero Parodi, ‘Avevo comprato la seicento, ma in un attimo
me l’hanno fatta a pezzi, in via Larga mi hanno rubato la targa,
e davanti alla porta la ruota di scorta’. Come per “La Balilla”
di Giorgio Gaber.
“Bossa figgeu” di un certo Natale Codognotto,
al secolo Natalino Otto, che su ritmi sudamericani consiglia
ai monelli che giocano a palla sulla piazza di scappar via che
arriva il vigile. E poi “Trilli Trilli” che recita un po’ così,
‘…e siamo di Genova, e siamo della foce, se ci girano le scatole
non prendiamo più moglie, finché al mondo ci sarà
la moglie del mio vicino non prendiamo più moglie per
un bel belino’.
Un rapido accenno a meno conosciute canzoni
firmate da un giovane Fabrizio De André, come a “Famiggia di
Lippe”, interpretate ancora da Piero Parodi, forse il più
apprezzato autore e interprete della tradizione genovese e ligure.
Genova
Desidero da principio accennare
ad un certo Edward Neill. Fiorentino di nascita, di madre genovese
e padre irlandese, aveva un piccolo studio in via San Luca,
nel pieno centro dei carruggi di Genova, e la sua passione era
Nicolò Paganini, sul quale ha scritto e pubblicato un
gran numero di opere. Dal suo studio di Genova, con un registratore
a bobina Geloso cominciò a girare per l’entroterra ligure
e piemontese registrando antiche ballate e filastrocche dagli
anziani del posto. Poi tornava a Genova e nel suo studio ogni
tanto capitavano un certo Luigi Tenco e un certo Fabrizio De
André, due ragazzini curiosi. Al che Edward accendeva il Geloso,
faceva ascoltare i brani registrati e microfono e chitarra in
mano chiedeva di ricantarli. In questo modo almeno sette brani
furono reincisi da Fabrizio De André ed altri tre da Luigi Tenco.
Se ne è scoperta l’esistenza solo nel 2001 quando Edward
Neill è mancato ed il suo materiale, circa ottomila registrazioni,
in assenza di eredi è giunto alla Fondazione De Ferrari.
La sua immensa nastroteca non è ancora stata del tutto
ascoltata. La grande scoperta dei brani di Luigi Tenco e Fabrizio
De André ha permesso la pubblicazione di una canzone popolare
in piemontese donata alla Fondazione De André stessa. Si tratta
di “Maria Giuana”, brano inciso anche da Orietta Berti nel 1974.
Di Edward Neill per finire vorrei segnalare il volume “Rime
popolari genovesi”, edito da “San Marco dei Giustiniani” editrice
a Genova, nel quale si trovano una moltitudine di filastrocche
in dialetto poi diventate canzoni popolari. “Volta la carta”
di Fabrizio De André è una di queste, cantata però
in Italiano con evidenti agganci alla filastrocca.
Crêuza de mä
La vera rivoluzione dialettale
nelle canzoni commerciali fu fatta proprio da Fabrizio De André,
che nel 1984, contrario ad ogni sorta di legge del mercato discografico,
volle pubblicare l’intero album “Crêuza de mä” in lingua
genovese. Parlo di lingua perché non è possibile individuare
nei testi il vero dialetto genovese, essendo i brani scritti
in genovese antico, mutuato dai testi e dal vocabolario della
metà dell’ottocento di Giovanni Casaccia. Nel capitolo
seguente uno studio sulla lingua dialettale genovese.
Un po’ di curiosità sul lessico dialettale
genovese nei testi di Fabrizio De André
Alcuni
versi nei testi in dialetto genovese tratti da antichi proverbi
o usanze.
Nella sopra citata canzone A Dumenega si narra
di una passeggiata domenicale, ovvero:
Quandu ä dumenega
fan u gíu
Cappellin neuvu neuvu u vestiu
Cu 'a madama
a madama 'n testa
O belin che festa o belin che festa
A tûtti apreuvu ä pruccessiún
D'a Teresin-a du Teresún
Tûtti a miâ ë figge du diàu
Quando alla
domenica fanno il giro
con il cappellino e il vestito nuovi
oh che bella festa
tutti dietro alla processione
della
Teresina del Teresun
tutti a guardare le figlie del diavolo
Le figlie del diavolo, ovvero le prostitute vestite
a festa con cappellino con il fiocchetto in processione per
la città. Fra queste la più famosa delle maitresse
di allora, la Teresina moglie del Teresio. Il poeta Remo Borzini,
amico di Giuseppe De André ha scritto un libro sulle case di
tolleranza a Genova, nonché sulle Osterie più rinomate
della città. E poi dicono che cultura e vizio non vanno
d’accordo...
Per dare una spiegazione storiografica corretta
del testo-dialetto della canzone non posso far altro che riprendere
quanto la storia di Genova narra: in realtà la prostituzione
nella Genova marinara era non solo tollerata, ma gestita in
maniera potremmo dire esemplare. I quartieri di Genova, da via
Montalbano (oggi via Garibaldi) alla Maddalena erano spesso
‘appaltati’ a gestori delle case chiuse, che il più delle
volte si identificavano con la municipalità stessa. Le
lavoranti, le signorine, erano tutelate dal comune previo il
pagamento di 5 genovini al giorno, avevano libera la giornata
della domenica quando in effetti era loro consentita una passeggiata
per le vie della città e venivano visitate da un medico
una volta a settimana. L’obolo versato giornalmente contribuiva
alla costruzione del nuovo molo sul porto antico (oggi Molo
Vecchio, dalla Calata Mandraccio ai Magazzini del cotone, proprio
di fronte alla Via Al Mare Fabrizio De André) tanto che il podestà
stesso al calar del sole ordinava di suonare la campana per
avvisare i clienti di andarsene dai postriboli perché da lì
a poco sarebbe passato a riscuotere il denaro. Non è
invece certo, anzi non era decisamente così, che le prostitute
lavorassero dentro il porto. Avrebbero creato scompiglio fra
i lavoratori del porto stesso, i camalli, ed era loro proibito
l’ingresso.
La tutela di queste signore-lavoratrici ormai
non più in età, diciamo per la professione, era
viva anche a Venezia, dove le prostitute erano relegate a vivere
a spese del comune, in pensione diremmo oggi, alla Cà-Rampani,
da cui oggi il termine ‘carampana’ citato anche nella Treccani.
In questo altro testo in dialetto si narra del cuoco che
si sveglia la mattina presto per preparare il piatto di carne
più famoso di Genova: La cima Genovese.
Ti t'adesciâe
'nsce l'èndegu du matin
Ch'á luxe a l'à 'n
pé 'n tèra e l'átru in mà
Ti sveglierai
sull'indaco del mattino,
Quando la luce ha un piede in terra
e l'altro in mare...
Un antico proverbio dei marinai
recita più o meno così:
“Il vero marinaio
ha un piede in terra e l’altro in mare”.
Inoltre, dalle
alture di Genova, da Castelletto, da Albaro, ma non solo, l’alba è
di colore azzurro indaco. É il momento in cui i pescatori salpano.
Ti mettiâe ou brûgu réddenu 'nte 'n cantún
Che
se d'â cappa a sguggia 'n cuxín-a á stria
A xeûa de
cuntâ 'e págge che ghe sún …
Metterai la scopa dritta
in un angolo,
Ché se dalla cappa scivola in cucina la strega
A forza di contare le paglie che ci sono…
Antiche credenze
recitano che se la strega tenta di entrare dal camino per sfuggire
al malocchio bisogna appoggiare agli alari una scopa di saggina,
così che sia costretta a contare tutte la pagliuzze prima
di entrare in cucina. Oppure cospargere il pavimento di sale.
Questo altro testo è tratto dal brano in genovese
“D’ä mæ Riva”, “Dalla mia riva”. Si narra di un marinaio
che prima della partenza contempla e riordina i suoi pochi averi
stipati nel suo baule.
E sun chi affacciòu
A sta bàule da mainà
E sun che a mia
Trèi
camixe de velluu
Duì cuverte u mandurlìn
E 'n caima de legnu duu
E 'nte 'na beretta neigra
A teu
fotu da fantin-a
Pe puèi baxa acùn Zena
'Nscià teu bucca in naftalin-a
E son qui affacciato
Su questo baule di marinaio
E son qui a guardare
tre camicie
di velluto
due coperte e il mandolino
e un calamaio di
legno duro
E in un berretto nero
la tua foto da ragazza
per poter baciare ancora Genova
sulla tua bocca in naftalina.
In naftalina: perché ?
Perché la naftalina uccide i
pidocchi e i marinai per mare al tempo non avevano, diciamo
così, tutte le comodità di cui godiamo oggi. É
quindi logico che la foto ingiallita della morosa conservata
nel berretto sapesse di naftalina.
Un altro breve testo
dalla canzone “Sidun”, scritta per la strage di Sidone nel Libano
anni ’80.
Ciao mæ 'nin
l'ereditæ L'è
ascusa
'Nte sta çittæ
Ch'a brûxa, ch'a brûxa
Inta seia che chin-a
E in stu gran ciaeu de feugu
Pe a
teu morte piccina
Ciao bambino mio
l'eredità è
nascosta
In questa città che brucia
nella sera
che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua
piccola morte
Il saluto drammatico di una madre al
figlio ucciso dopo la battaglia di Sidone nel Libano del 1982
e stritolato dai cingoli di un carro armato. Fabrizio De André è
sempre stato molto attento e vicino ai bambini e agli adolescenti.
Senza che le ribalte giornalistiche lo sapessero, spesso si
recava nelle scuole e nei licei sollecitato a parlare dei suoi
testi ai ragazzi. La prima di queste partecipazioni in sordina è
avvenuta a Bastia, in Corsica, dove gli insegnanti utilizzavano
i suoi testi in genovese per far comprendere il “linguaggio
corso antico” tuttora parlato a Bonifacio, l’unica vera città
della Corsica dalle sembianze e modi genovesi e dove ancora
si parla il l’antico dialetto genovese. Successivamente Fabrizio
De André compose un testo in dialetto sardo per la brutalità
della guerra affrontata dai bambini. Il testo era Pitzinnos
in sa gherra, portato alla ribalta a Sanremo dai Tazenda.
Mariano
Brustio, classe 1959,
un passato ultra decennale nell’Olivetti degli anni d’oro, ha scelto
la libera professione che ancora oggi svolge presso il Centro
di Ricerca della Commissione Europea, al JRC
di Ispra in provincia di Varese. In questa vita, la
numero uno, si occupa di collaudi e collabora alla
ricerca sulle reti intelligenti, ovvero le Smart Grid, non tralasciando
di fornire il suo supporto al mondo delle nascenti Auto Elettriche
EV
avendo la fortuna di vederne in anteprima i prototipi in collaudo, ma
di cui non può assolutamente parlare. Dicono sia un discreto
informatico, sebbene abbia all’attivo una mancata laurea in Scienze
Politiche.
Nella sua vita parallela, la numero due, del resto
il suo quadro astrale lo annovera fra i Gemelli, si considera curioso
di tutto. Chi lo conosce però non lo ritiene un invadente, anzi
preferisce lavorare dietro le quinte. Figlio di artisti, lui stesso
si è cimentato con l’arte, ma purtroppo, non essendo annoverato
fra gli artisti maggiori, deve far coesistere questa con la vita
numero uno, almeno per il proprio e altrui sostentamento. E in questo
dualismo ha avuto il privilegio di annoverare preziose amicizie con
questi Artisti Maggiori ed anche l’occasione di collaborare alla stesura
dei volumi bio-fotografici su Fabrizio De André “E poi il futuro”
- Mondadori 2001, “Belin, sei sicuro?” - Giunti 2003, come coautore
al libro “Volammo Davvero” – edito da Fondazione De André - Bur
2007 e La nave di Teseo - 2021 insieme a tanti altri autori di
fama, fra cui il Premio Nobel Dario Fo. Per diversi mesi ha lavorato
fianco a fianco a
Fernanda Pivano durante la preparazione del volume "The
Beat Goes On" – Mondadori, che gli ha fatto dono della sua preziosa
amicizia. Storico socio fondatore della Fondazione Fabrizio De André
Onlus, e collaboratore di lunga data, ha curato decine di mostre itineranti
su Fabrizio De André e la sua opera, dal 2000 ad oggi, spesso con il
regista
Pepi Morgia. Ha pubblicato suoi scritti di musica
ed economia e collaborato alla realizzazione del CD “Ed avevamo gli
occhi troppo belli” ed al DVD “Ma la divisa di un altro colore”
per la “Editrice A”. Ha collaborato alla pubblicazione di un dossier
relativo al cantautore francese Georges Brassens che
L’Espace
Brassens, il museo dedicato a questo grande artista francese
nella sua città natale a Sète in Francia, ha pubblicamente
elogiato per l’accuratezza ed il contenuto del testo. Ha collaborato
alla realizzazione del DVD “Fabrizio De André in Concerto” - edito dalla
Fondazione Fabrizio De André - BMG-Ricordi 2004 curandone la ricerca
iconografica e la prima dettagliata discografia ufficiale, poi riutilizzata
da altri autori. Ha inoltre collaborato alla realizzazione della mostra
dedicata a Fabrizio De André promossa dal Palazzo Ducale di Genova nel
2009 e in tutto il resto d’Italia. Nel 2016 ha pubblicato un suo racconto
sul volume "Nelle ferite del Tempo" i cui proventi sono stati
devoluti interamente ai terremotati di Amatrice. Ha recensito racconti
e romanzi di vari autori, non solo in ambito musicale e ne ha curato
la presentazione pubblica in Italia, anche in varie stazioni radiofoniche
maggiori. Il libro “Mondo Vinile”
a cura del giornalista RAI-Marco Tesei (Ed. Zona 2019) contiene un suo
saggio particolarmente incentrato sulla Genova cantautorale e su
Fabrizio De André. É stato citato più volte da Artisti
Maggiori, come fonte inequivocabile di verità appena svelate.
S
ebbene decine di siti e di libri riportino la discografia di questo Artista (e fra l'altro la prima discografia Ufficiale è presente sul DVD In Concerto dal Teatro Brancaccio di Roma del 1998, edito dalla Fondazione Fabrizio De André per la quale ho curato la redazione) ebbene ho deciso di integrare alcune informazioni attraverso le mia ricerche. Non mi sono interessato alle versioni dei dischi con la parolina diversa, la foto di profilo o frontale o con i colori diversi, le copertine dove è indicata la sede di Roma o Milano... e cose di questo genere che lascio ad altri, ad eccezione delle informazioni di rilievo e più significative per l'interprete o per la casa discografica. Sottolineo unicamente che tutta la produzione discografica Karim vede nelle varie copertine il solo nome di battesimo, ad eccezione di un raro caso e della raccolta in un unico Long Playing nel quale per la prima volta compare il cognome. Molto si è detto a questo proposito, mutuando e facendo proprie anche le parole stesse dell'autore, insieme peraltro ad informazioni del tutto inventate e supposizioni irreali. Rispetto nei confronti della famiglia, del cognome, volontà di non essere riconosciuto ecc. ecc. Forse fra le righe seguenti si potrà immaginarne la risposta. Qua di seguito le mie ricerche.
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