mariano brustio autore

La musica e le lettere gli sono accanto da sempre. Curioso delle melodie di ogni luogo e delle parole che i luoghi nascondono, ha avvicinato l'arte sin da quando, bambino, strimpellava il piano con alterne fortune, lontano dal padre musicista, ribellandosi alla matematica delle note per scoprire modi alternativi di stupirsi. Il caso favorevole gli ha regalato momenti di belle amicizie e di rara complicità . Si è scoperto narratore quando i ricordi sono riaffiorati a poco a poco e ha riempito pagine e pagine dei racconti riemersi. E qualcuno addirittura dice con discreto talento. Lui preferirebbe invece credersi un fortunato navigante al battesimo di un mare per una volta compiacente.

 


 

 



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Q
ualche anno fa in gita su un lago nel novarese, mi sono tornate in mente storie che temevo si fossero assopite o nascoste fra i risvolti dei pensieri e delle incombenze più urgenti. E con mia sorpresa mi sono ritrovato a ricordare quello che alcuni amici mi avevano raccontato, fra un whiskey ed un altro, e immagini di una terra quasi sconosciuta sovrapposte ad una città che ho amato e che amo. E così fra un carruggio e l’altro mi sono divertito a ricamare i ricordi di parole e immagini intessute di sole lettere e vocaboli. E a qualcuno era pure piaciuto. Ma non mi sembrava ancora abbastanza. E come per quelle raccolte di canzoni che svelano fra le tante già ascoltate un solo unico inedito, o fra quei libri di immagini già viste migliaia di volte che fanno riaffiorare una foto perduta, ho rimesso mano al racconto e gli ho dato una forma compiuta, ho restituito alla mia memoria la forma di una storia compiuta. Questo nuovo racconto è  arricchito di altri sei anni di ricordi e immaginazioni, non è la fine della storia,  ma l’inizio di un viaggio al battesimo di un mare spero per una volta compiacente.

 

Era una giornata di sole Mariano Brustio



Era Una Giornata Di Sole  romanzo (2018) disponibile  su Apple Books  a 4,49 €   

 

(da una recensione su Web)

Il seguito naturale di Via delle Ortensie, il racconto di Eugenio, lo sventurato navigatore che tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta vive con la sua compagna Susanne una serie di tragiche avventure marinaresche. Un romanzo delicato e al tempo stesso intriso d’amore: quello fra uomo e donna, quello per i figli, per il mare dal quale è impossibile allontanarsi e che allegoricamente qui rappresenta la vita, a volte burrascosa, altre calma e tranquilla. Un inno all’amicizia, alla fiducia, alla condivisione, ma soprattutto alla ricerca e al rispetto della dignità. Un racconto appassionante e delicato che si legge con facilità, perché scritto con linguaggio fluido, volutamente elementare, il cui contenuto lascerà ai lettori sentimenti tanto positivi quanto quelli che animano i personaggi della vicenda in cui l’autore sa dosare eventi lieti e tristi della vita. Resterà facilmente nella memoria dei lettori. La prefazione è di Giancarlo De Cataldo.

 

 



Via delle Ortensie
romanzo (2012) disponibile  su Apple Books  a 4,49 €

 

Un romanzo incentrato sulle vicende dello sventurato marinaio Eugenio e della sua compagna Susanne, orfana dei genitori svizzeri, cresciuta in un sanatorio immaginario della riviera ligure ed allevata poi presso una facoltosa famiglia genovese. Un racconto particolarmente focalizzato sulla statura psicologica dei personaggi e sull'alone poetico che li avvolge. Racchiude in sé più vicende di vita, amore e amicizia. L'ambiente marinaresco, i paesaggi del Québec, le avventure di Jacques e Mireille fanno da contorno al racconto che spazia degli anni ‘60, sino ai primi anni ’80, spaziando per luoghi tutti reali, dai laghi del novarese alla Svizzera, da Genova al Canada, ed approdando in un paese immaginario lungo la costa canadese. Questi luoghi fanno da sfondo all’umanità dei personaggi, intorno ai quali s’intrecciano altre storie di protagonisti all’apparenza marginali, ma che sul piano del racconto sostengono le vicende di Eugenio e Susanne e del loro figliolo Jacques, divenendo efficaci testimoni dei protagonisti e dell’intera storia narrata. Un romanzo delicato, piacevole da leggere e appassionante sino alle ultime righe, raccontato con un linguaggio semplice per adattarsi ai personaggi immaginari.

 

 

Fabrizio De André - Volammo Davvero - Fondazione Fabrizio De André ONLUS (ed. La nave di Teseo - 2021)

C
ome un romanzo in frammenti, questo libro raccoglie le voci  del discorso ininterrotto che Fabrizio De André ha aperto con le sue  canzoni e la sua vita artistica. Un dialogo a tutto campo su letteratura, musica, impegno e sui tanti temi civili percorsi da un cantautore che voleva “essere socialmente utile”. Un pensiero che scrittori, studiosi, amici hanno deciso di portare avanti a partire dalle sue canzoni: parole che scavano, emozionano, illuminano, e aprono traiettorie sempre nuove a un volo che non si è interrotto. “Questo libro è la dimostrazione che Fabrizio è quel che tu hai bisogno che sia, che i limiti di Fabrizio sono sempre solo i limiti di chi lo avvicina, perché qualunque cosa si riesca a concepire di chiedergli, lui la dà – anzi, l’ha già data. Che si tratti di un fotografo, di un sacerdote, di uno scrittore, di un critico, di un musicista, di un premio Nobel, l’interlocuzione instaurata in queste pagine con Fabrizio risulta naturale, perfino ovvia, per ciascuno di loro, perché il loro punto di vista e quello di Fabrizio sembrano sempre coincidere - di coincidenze che possono essere anche del tutto casuali: non cambia nulla, perché come insegna Yamamoto Jinuemon, padre di Tsunetomo, autore dell’Hagakure, ovvero il libro segreto dei Samurai, ‘se si guarda bene in una direzione, si vedono anche tutte le altre’.
Dall’introduzione di Sandro Veronesi.

Postfazione di Dario Fo

 

 


 

E poi il futuro  (ed. Mondadori - 2001)

 

Fabrizio De André rimane uno dei più carismatici fra i cantautori italiani.Con la sua voce e con la sua poesia ha cantato storie e personaggi in cui si è identificata più di una generazione. Il volume raccoglie molte fotografie inedite, tratte dal suo album personale e dagli archivi dei fotografi che più da vicino lo hanno seguito negli anni. Completano questo diario di una vita la voce di Fabrizio, attraverso interviste, manoscritti e appunti originali, e una discografia dettagliata e definitiva.
(discografia e ricerca iconografica album a cura di Mariano Brustio)

 


 

Fabrizio De André  in concerto (DVD - 2004)

 

Concerto integrale registrato presso il Teatro Brancacciodi Roma il 13 e 14 febbraio 1998. La foto di copertina è stata realizzata da Roberto Grandi ed è di proprietà della Pro Loco di Sasso Marconi. La foto riprodotta sull'etichetta del DVD è stata realizzata da Carlo Verri.
(la prima discografia ufficiale dell'Artista. Ricerca iconografica album e redazione a cura di Mariano Brustio)

 


 

Belin,sei sicuro ?  Storia e canzoni di Fabrizio De André (ed. Giunti - 2010)

 

Un racconto per conoscere il vero De André attraversole parole di chi lo ha conosciuto da vicino. Un prezioso collage di testi: un saggio critico di Franco Fabbri, una traccia biografica di Enrico Deregibus e sei interviste a Ivano Fossati, Massimo Bubola, Giampiero Reverberi, Roverto Dané, Franz Di Cioccio, Mauro Pagani. Completano il volume belle foto in bianco e nero e una preziosa discografia illustrata con tutti gli album ed i rarissimi 45 giri del grande artista.
(discografia e ricerca iconografica album a cura di Mariano Brustio)

 


 

I 101 dischi che hanno segnato il Québec - Éric Trudel - (Edition Trécarrè - Montreal Quebec- 2008)

Questa antologia critica mette in luce queste pietre miliari elencando gli album che hanno avuto un'influenza e un certo impatto sull'evoluzione della musica, in Quebec e nel resto del mondo. Ad oggi, nessuna antologia di questo tipo è stata prodotta: gli album essenziali del Quebec del periodo yé-yé, le scatole per le canzoni, il country-western, il rock, la discoteca stessa, sono tutti contenuti in questa guida, intesa diventare un lavoro di riferimento. I 101 dischi che hanno segnato il Quebec coprono i successi di Alys Robi e quelli di Tricot Machine, attraverso Michel Pagliaro e i Colocs, con pari competenza.
(contributo fotografico con immagini di Leonard Cohen scattate da Mariano Brustio, Milano 1988-1993)

 

 

 

Mondo Vinile stili, mode e avanguardie musicali in un pick-up - Marco Tesei -(Editrice Zona - Genova 2019)

 

Da alcuni anni il disco in vinile vive una nuova primavera: apprezzato per il suono “imperfetto”, ovvero soggetto a lievi distorsioni e irregolarità che gli conferiscono un’immediatezza e una naturalezza – una “verità” – del tutto diverse dall’artefatta perfezione formale della musica digitale, la sua ri/scoperta riguarda non solo un manipolo di nostalgici agé, ma anche giovani e giovanissimi. Questo libro apre un’ampia finestra sul variegato mondo del vinile: storia, personaggi, saperi, tendenze, mercato, con tante interessanti curiosità. C’è tutto un mondo attorno al vinile, e questo libro ne raccoglie una qualificata rappresentanza. Interviste e contributi: Marta Boneschi, Massimo Bonelli, Massimo Gasperini, Filippo De Fassi, Mario Pezzolla, Massimo Cotto, Mimmo Locasciulli, Dario Mondella, Silvana Casato, Guido Giazzi, Rolando Giambelli, Giordano Criscuolo, Carlo Montana, Claudio Pescetelli, Bruno Casini, Mariano Brustio, Francesco Spampinato, Grazia Paganelli, Marco Biondi, Nicola Iuppariello, Riccardo Russino.

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Scritti, articoli e contributi

Fabrizio De Andre De André De Andrè Mariano Brustio

 

Georges Brassens Fabrizio De Andre De André De Andrè Mariano Brustio

 

 Mariano Brustio

 

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Leonard Cohen Fabrizio De Andre De André De Andrè Mariano Brustio
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Leonard Cohen Fabrizio De Andre Dori Ghezzi Mariano Brustio

 

 

Eugenio - racconto donato al progetto Pro Terremotati a cura di Gioia Lomasti e Emanuele Marcuccio (2016)
E
ra sbarcato con il suo brigantino di 24 metri quando già stava facendo buio. Alla marina di Rimini si era formata la folla delle grandi occasioni. Tutti ad ammirare quella barca tirata a nuovo e rimessa a lucido, con le sue vele quasi ammainate. Il fiocco e il controfiocco erano già abbassati e i due marinai stavano ormai impacchettando la randa. Eugenio, con il suo cappello in testa, aveva acceso il motore di servizio e stava facendo il suo ingresso trionfale nello stretto canale per ormeggiare la sua barca.  L’aveva scovata in un cantiere nei pressi di Bastia e se ne era innamorato subito. Tre lunghi anni di lavori snervanti, fra tavole di legno e fasciami marci da sostituire e interminabili viaggi a Monfalcone alla fabbrica di vele, per trasformare in realtà quel sogno che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Con i soldi della liquidazione era riuscito, ma lui diceva era stato un colpo di testa, a comprare quel legno vecchio. Trent’anni di lavoro in quel quartiere di Milano, vicino alla Schighera, e una medaglia d’oro che non valeva tutta la fatica per la sua tanto agognata pensione. Avrebbe cenato sulla terra ferma, un pasto frugale e veloce, prima di prendere l’auto che aveva lasciato giorni prima e tornare al suo paese, fra le colline laziali che si affacciavano all’Umbria. Era il luogo che aveva dato il nome al piatto di pasta, famoso nel mondo, tanto rinomato ed apprezzato da tutti. Il viaggio sarebbe durato oltre tre ore, su quella sua vecchia Land Rover che suo fratello, contadino ad Amatrice, gli aveva regalato quando ormai aveva lasciato i campi alle ortiche, diceva lui, come aveva sentito cantare da quell’artista genovese mezzo matto un po’ di anni prima. Poco dopo Grottammare aveva lasciato l’autostrada, salendo ed attraversando i paesi di Acquasanta, Arquata e si era fermato ad Accumoli, a salutare il suo vecchio amico e compagno di lavoro per quasi trent’anni. Battista lo aspettava sotto la torre, un cartoccio sotto il braccio dove aveva conservato una forma di pecorino, ed una bottiglia di vino nella mano. Come Eugenio, si era ritirato al suo paese per godersi la pensione ed aveva rimesso in sesto, con gran fatica, quell'antica vigna. Suo padre possedeva un vitigno prezioso, il Sagrantino di Montefalco, ma ormai la sua cantina e i vecchi torchi, da anni, non erano più impreziositi da quel nettare. Battista, cocciuto e fiero di quel poco che era stato conservato, era ritornato al paese e senza quasi un giorno di riposo dopo l’ultimo lavorato in fabbrica, per tre anni aveva lavorato giorno e notte, instancabile, a curare quei tralci e raccogliere i primi grappoli. Quella bottiglia fra le mani era un dono prezioso, il simbolo di un ritorno alla vita, all’amore per quella terra che aveva lasciato poco più che ragazzino. Si incontrarono quando ormai le campane stavano battendo i rintocchi delle undici, notte fonda in quel luogo di anime tranquille, anche in quella serata di agosto. Non c’erano villeggianti. Erano tutti altrove. Solo qualche decina di persone che era tornata al paese a salutare i genitori o gli zii, e a controllare che quelle vecchie case di pietra fossero ancora vivibili. Un abbraccio rapido e qualche pacca sulle spalle, con la promessa che si sarebbero rivisti qualche giorno dopo. Eugenio ripartì quando ormai scoccava la mezzanotte, ripercorrendo quella strada sulla costa della collina che tante volte era stata la sua compagnia nelle notti insonni a Milano. La sua casa non era nel centro del paese, ma poco fuori, vicino al Ponte a Tre Occhi. Una vecchio maniero di campagna che suo fratello aveva abitato per anni, dopo che i loro genitori erano mancati. Senza molte pretese, qualche stanza con il soffitto di legno con grosse travi, una cucina con il vecchio forno dove la loro madre per tanti anni aveva cotto il pane, un porticato che dava sul cortile e una vecchia rimessa dove ancora c’era il vecchio trattore. Parcheggiò la sua Land Rover e raggiunse stremato la camera da letto. Non ricordò nemmeno di essersi addormentato. La stanchezza era così tanta che ogni pochi minuti si svegliava, udendo il verso di qualche gufo e di qualche volpe che si aggirava nei campi lì intorno. Aveva preso finalmente sonno che fu svegliato da un boato che sembrava provenire dal basso. Per qualche istante credette di essere ancora sulla barca e temeva che un’onda avesse spezzato lo scafo, ma poi, improvvisamente, fu sbalzato dal letto e ricadde sul tappeto lì accanto. Con fatica cercò un interruttore per accendere le luci, ma nulla, buio assoluto. Si affacciò alla finestra che dava sul cortile, ma non gli riuscì di vedere nulla. Poi una scossa del pavimento lo fece sobbalzare, le sue gambe non lo reggevano, un tremore furibondo si stava impossessando del suo corpo, mentre sentiva al piano di sotto, bicchieri e piatti che cadevano. Il terremoto, pensò. Si precipitò di sotto e afferrò al volo un paio di stivali che suo fratello lasciava di solito nel portico, correndo verso il cortile. Dopo pochi attimi quell’inferno pareva fosse finito. Intorno alla sua casa non c’erano altre abitazioni. Nessuno cui chiedere cosa potesse essere accaduto. Salì sulla Land Rover e si diresse verso il paese, ma solo dopo qualche centinaio di metri si accorse di non avere acceso i fari. Si fermò e cercò sotto il volante l’interruttore e lo spostò all’insù. Rialzò lo sguardo solo per vedere cumuli di pietre, mattoni, case rase quasi al suolo. Si fermò non potendo proseguire oltre e il silenzio assordante era ormai diventato un vociare di urla, pianti e guaiti di animali. La notte si era fatta chiara per la polvere che era sospesa nell’aria. I pali della luce erano divelti a terra, i cartelli stradali schiantati e sommersi da macerie. Non sapeva cosa fare, come muoversi, dove andare. Correndo verso un muro crollato, intravide altra gente, in pigiama come lui, che correva altrove. Poi si fermò di colpo. Vide per terra una bambola fra i detriti e alzò gli occhi, in alto verso la sua destra. Una casa era completamente sventrata, il letto ancora al suo posto, le pareti abbattute. Abbassò gli occhi verso la bambola e intravide una macchia di colore fra i detriti. Allungò le braccia e prese quella creatura che sembrava dormisse. I capelli fra gli occhi, una manina chiusa a pugno, il pigiama macchiato di rosso. Nessuno lì intorno. Scese da quel cumulo di macerie con quella creatura fra le braccia e la adagiò su una fioriera di legno, fra qualche ciuffo di geranio ancora in fiore. Stette immobile senza poter far nulla, senza darsi una spiegazione logica né un perché, sino a quando udì una sirena e un automezzo che si fermò a pochi metri da lui. “Non ho potuto far nulla, è morta fra le mie braccia”, disse al vigile del fuoco che accorreva da lui. Era un ragazzotto di poco più di vent’anni che tremava come una foglia, spaventato e terrorizzato. Erano le cinque di mattina del 25 agosto, non c’era un filo di vento e da est cominciava a rischiarare timidamente su quell’inferno di polvere e pietre. Dopo qualche giorno, fra centinaia di persone che ormai erano accorse, seppe da un cronista della televisione che Battista, su ad Accumoli, era una delle vittime di quella sciagura che si era portata via qualche altro centinaio di persone. Aveva salvato due persone, ma per uno scherzo del destino che aveva truccato le carte a suo sfavore, il solaio di una casa lo aveva schiacciato, senza lasciargli scampo. Sul sedile della sua Land Rover c’era ancora quella bottiglia di vino, il dono prezioso di un ormai tragico ritorno alla vita.



 

 

"Discorso sulle maggioranze e le minoranze"
Relazione durante il convegno al Centro Provenzale di Coumboscuro - 27 agosto 2022:

Convegno a Sancto Lucio Di Coumboscuro

 

Chi lavora con le mani è un operaio, chi lavora con le mani e con la testa è un artigiano, chi lavora con le mani, con la testa e con il cuore è un Artista” (San Francesco d’Assisi).
“Gli artisti, maledizione! Un intellettuale integrato, poverino, io lo capisco: è uno che legge dentro le righe e capisce quello che succede molto più degli altri. Capisco che se non è artista, se non riesce a trasformare quello che capisce in qualcosa d'altro che arriva ancora meglio, deve integrarsi: l'artista è un anticorpo che la società si crea contro il potere. Se si integrano gli artisti, ce l'abbiamo nel culo!” (Fabrizio De André)

Mi chiederete a questo punto perché ho iniziato con queste citazioni: semplice, o forse azzardato. Fabrizio De André è stato un Artista, a mio giudizio con la definizione che ne diede San Francesco d’Assisi. In tutta la sua Opera ci ha mostrato un modo di approcciarci alle cose, alle situazioni della vita, esplorandole da un punto di vista diverso e soprattutto con il cuore, da una posizione che seppur comoda, (la sua vita è stata quella di un piccolo borghese, come amava definirsi lui), non mancava di avere più di uno sguardo verso chi non aveva potuto beneficiare di quel filo della fortuna che forse era capitato a lui. Verso tutti coloro meno fortunati e meno integrati nella società.

Prendiamo ad esempio una fra le sue prime composizioni: “La Città Vecchia”. Qualcuno dice che gli sia stata ispirata da Umberto Saba. E in parte potrebbe essere vero, se leggiamo solo gli utltimi versi di entrambe le composizioni. Io invece preferisco pensare che lui sia stato folgorato, diciamo così, dalle parole di una poesia di Jacques Prevert: “Embrasse Moi”.

“È buio qui, manca l’aria
L’inverno come l’estate è sempre inverno
Il sole del buon Dio non splende qui da noi
Ha già troppo da fare nei quartieri ricchi.”

“Nei quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi, Ha già troppi impegni per scaldar la gente d'altri paraggi”
è evidente che questi versi siano stati scritti pensando ad un paio di poveracci magari sul sagrato di una chiesa con un cappellino per terra e le mani a chiedere soccorso, elemosina, oppure in vicolo maleodorante dove avevano cercato riparo, non avendo una casa comoda e calda. Non certo per il sindaco del borgo, senza nulla togliere. Insomma, non proprio la Maggioranza delle persone.

Mina nel tardo 1967 ha inciso la “Canzone di Marinella”, regalando a Fabrizio quella notorietà di cui ha goduto per tutta la sua vita. E per combinazione questa canzone è stata proprio l’ultima incisione di Fabrizio De André, guarda caso proprio nel famoso duetto con Mina. Conosciamo forse tutti la trama della canzone, di quella prostituta uccisa e gettata in un torrente, non importa nemmeno poi tanto qule torrente o fiume. Ebbene stiamo parlando di una prostituta che agli occhi della “gente”, dico la Maggioranza della gente, qualla che Georges Brassens definiva “Les Braves Gents” (ma alle brave persone non piace che seguiamo una strada diversa dalla loro) non gode di particolare attenzione e considerazione, proprio per il mestiere che ha scelto, o in tanti altri casi, è obbligata a fare, e non certo, almeno nella stra-grande maggioranza dei casi, dalla famiglia, bensì da una maggioranza che si arroga il potere di vessare e sfruttare persone come lei. Per fortuna Fabrizio ha avuto l’illuminazione di regalarle almeno una morte decente.
Mi piace ricordare i versi di Francois de Malherbe 1555-1628, forse ispirazione per alcuni versi della canzone:

“Ma lei era del mondo dove le più belle cose
Hanno il peggior destino:
Da rosa ha vissuto quanto vivono le Rose,
Lo spazio d’un mattino.”

Curiosamente proprio De André in alcuni casi modificava alcune parole della canzone, cantandoli in questo modo: il verso “ma lui che non ti volle creder morta…” diventava in maniera più sprezzante nei confronti del potere della maggioranza “e invece tutti vennero a sapere, ti aveva dato un calcio nel sedere”, a rimarcare proprio il “corpo-oggetto” buttato via dall’arroganza di un potere superiore. E allora la figura della Rosa che ha vissuto almeno un mattino come nella poesia di Francois de Malherbe, ne addolcisce la morte, divenendo nei versi colei che ha vissuto almeno un giorno come l’immenso splendore delle rose.

Se volessimo poi addentrarci ancora nell’argomento “prostitute” non potrei fare a meno di citare il brano Brave Margot di Georges Brassens, il suo grande Maestro, dove le comari del paesino si avventarono sulla povera giovinetta Margot, ben più avvenente di tutte loro, che aveva attirato tutti gli sguardi degli uomini del paese. In poche parole la Bocca di Rosa di De André, scacciata dal paese da una Maggioranza bigotta.

Ancora nel brano in genovese “A Dumenega”, è ben più evidente lo scherno della intera popolazione nei confronti delle prostitute che avevano accesso libero alla città nel solo giorno della domenica e, che seppur schernite dalla intera popolazione benestante dell’epoca e dal comandante del porto, per via della loro “professione”, contribuivano regolarmente e per espressa delibera del comune alle casse cittadine e al porto. Tanto quanto le anziane prostitute di Venezia, Minoranze relegate ormai vecchie e decrepite alla “Ca’ Rampana” per decisione del doge e di tutto il consiglio. Ovvero le Maggioranze del tempo, che concedevano loro il permesso del soggiorno, seppur con il pagamento dell’obolo per l’affitto.
Per non parlare del Carlo Martello, L’autorità suprema delle Maggioranze, che dopo essersela spassata se la svigna lasciando la poveraccia, simbolo dei soprusi commessi verso le minoranze, sola e senza il corrispettivo richiesto per la sua prestazione d’amore.

Cambiando argomento, forse non tutti hanno colto la ribellione dell’impiegato, ovvero di una Minoranza che deve essere per forza silenziosa ed obbediente, che nel suo sogno di vendetta getta la bomba sui gradini del tribunale sbagliando bersaglio, elencando dapprima tutte le Autorità e quindi le Maggioranze presenti “Al Ballo Mascherato”, sino alla frase “adesso puoi togliermi i piedi dal collo e ti riporto a conversare con i tuoi simili al ballo delle celebrità”, poi alla fine mi toglierà lo sfizio di gettare la bomba.

Ancora in “Amico Fragile”, la ribellione silenziosa di fronte agli amici altolocati del padre che vorrebbero costringere l’Artista ad imbracciare la chitarra e suonare per allettarli, un po’ come nei salotti romani di un tempo dove l’Artista era solo l’accompagnatore giullare delle serate della buona borghesia. Ma per nostra fortuna ne è nato un capolavoro, uno fra i tanti di Fabrizio De André.

Per ritornare ai Francesi, Villon scrisse la Ballata degli Impiccati e De André ne ricalcò una immagine che recita un po’ in questo modo:
“noi derelitti e prossimi all’impiccagione scivolammo nel gelo di una morte senza abbandono recitando l'antico credo di chi muore senza perdono: chi derise la nostra sconfitta e ci sparse la terra sulle ossa riprendendo tranquillo il proprio cammino, giunga anch’egli un giorno stravolto alla fossa”.
Perdono da chi? Perdono da chi ha giudicato dalla sua posizione di Maggioranza autoritaria, deridendo il povero derelitto, che fa parte di una Minoranza obbligatoriamente silenziosa a causa forse dei presunti errori commessi. Il rifiuto dell’autorità si fa molto evidente, così come l’anarchismo spesse volte dicharato. Ma nella sua etimologia greca, anarkhía, ovvero assenza di governo e quindi di autorità.

Come non citare che “le nozze vanno avanti, per la gente bagnata e per gli dei dispettosi”, mutuata dalla traduzione di Georges Brassens di quei due poveracci che andarono sposi sul carro da buoi, non su una cazzozza dorata seguita dai ricchi signori rappresentanti di una ricca borghesia, già allora di una Maggioranza che si arrogava persino il potere del benessere.

Per arrivare più tardi alla figura del secondino in adorazione del capo della camorra cui serve diligentemente il caffè nella sua cella, e a cui chiede aiuto dalla sua posizione che ritiene subalterna, per far bella figura allo sposalizio della figlia. Senza tralasciare l’impunità che il ruolo della politica garantisce ad una Maggioranza di potere (per questi i fetenti si tengono l’immunità) cui tutto è permesso, persino di rubare e di arricchirsi sul costo delle lenzuola da distribuire nelle carceri a quei poveracci che, sì hanno sbagliato, ma non per questo debbono essere trattati come animali.

Non tralasciando nemmeno la figura della Pittima, una fra le tante minoranze vessate, che pur nella sua condizione di riscossore di qualche debito di denaro, non ha timore di farne richiesta alla luce del sole, rimarcando forse che quelle Maggioranze che godono la loro bella e gioiosa esistenza, forse lo fanno con i beni altrui, non di certo meritati.

Capitolo di certo più interessante è quello della lingua: la canzone cantata nel dialetto (il genovese) che la Maggioranza dei genovesi non riuscì a capire. Perché scritta in una lingua arcaica mutuata dai vocabolari del Casaccia del 1850 e dagli scritti ottocentesci che la Maggioranza oggi ignora. E proprio il diverso punto di vista di De André ci ha permesso di goderne la musicalità dei versi e delle parole.

“Oh Signore! Accogli le preghiere di questo povero supplicante e concedigli di morire avvolto nella polvere delle città, addossato alle grandinate di una casa infame e illuminato da tutte le stelle del firmamento. Ricorda Signore che il tuo servo ha osservato pazientemente le leggi del branco. Non dimenticarne il suo volto. Amen!”
Quando Maqroll terminò la sua invocazione restammo un momento in silenzio. V’era in essa una così profonda virtù marinara che ci fece sentire estranei e lontani da quel mondo che, in realtà, era il suo e lo sarebbe stato fino alla fine dei suoi giorni. Per l’incanto delle parole di questa smisurata preghiera, ci rendemmo conto che il passaggio del Gabbiere al sotterraneo mondo delle miniere era stato come una condanna che si era imposto per scontare chissà quali oscuri errori e mancanze nei propri doveri”. (Alvaro Mutis)

Da questi passaggi e da altre opere di Alvaro Mutis sono tratte le ispirazione che hanno portato alla composizione di Smisurata Preghiera, come diceva De Andrè stesso:

“Raccontato così il disco (Anime Salve) sembrerebbe incentrarsi soltanto sul problema delle Minoranze emarginate. Credo sia riduttivo considerarlo così. Credo che queste persone singole o questi gruppi di persone proprio difendendo il loro diritto a rassomigliare a se stessi senza far male a nessuno, difendono in fin dei conti la loro libertà. Una libertà conquistata attraverso il disagio della solitudine. La solitudine che porta anche a delle forme di libertà straordinarie: è faticosa, sicuramente, soprattutto quando la si vive come emarginazione e non come scelta personale. Emarginazione a sua volta dovuta a comportamenti da parte di singole persone o di gruppi di persone difformi dai comportamenti della Maggioranza degli esseri umani”.

Le Maggioranze che esercitano l’emarginazione nei confronti delle Minoranze, gli zingari ad esempio, che come De André diceva:
“E’ quindi un popolo che gira il mondo da più di 2000 anni, afflitto o affetto – io non so come meglio dire, ma forse semplicemente affetto – da quella che gli psicologi chiamano “dromomania”, cioè la mania dello spostamento continuo, del viaggiare, del non fermarsi mai in un posto. È un popolo, secondo me, che meriterebbe – per il fatto, appunto, che gira il mondo da più di 2000 anni senza armi – meriterebbe il premio per la pace in quanto popolo”.
E che ha ispirato a Fabrizio quella canzone “Khorakanè” che proprio si rifà anche a tradizioni in questo caso gitane descrivendo la festa degli zingari che due volte all’anno avviene in Provenza, a Les Saintes Marie De La Maire nel sud della Francia.

E veniamo al provenzale, spero mi permetterete di farlo anche un po’ mio, essendo almeno vostro corregionale. Per inciso, sono cresciuto ed ho vissuto in un borgo in piemontese dove non si parla il “piemontese” o il “torinese” ma un dialetto che non esiste in nessun altro paese del Piemonte, che sa un po’ di antico Gallico e Francese.

Fabrizio anni fa, credo nel 1993 in una intervista ad un quotidiano, ebbe a dire:
“Quando mi hanno proposto di cantare con i Troubaires de Coumboscuro, devo essere sincero, ignoravo io stesso che in Italia ci fosse una minoranza linguistica provenzale. I miei ricordi andavano a quei Trovatori “trovati” distrattamente sui libri scolastici e poi su numerose pubblicazioni che mi sono passate per le mani negli. Infondo il mito del Cantore errante, della poesia spacciata per popolare, che popolare non era, perché nessuno sapeva scrivere fra il popolo nei primi secoli del 1000, mi ha sempre attratto.”

Ne è nata una re-interpretazione di un brano piemontese o provenzale che come tutti sappiamo ha inciso proprio con I Troubaires de Coumboscuro. Un brano dalla dolcezza immacolata che per qualche sconosciuta ragione doveva trovar posto sull’ultimo album “Anime Salve” di De André, ma che poi per ragioni di spazio, mi ha raccontato proprio Ivano Fossati, non è stato possibile aggiungere all’ultimo capolavoro. “Bello Caio”, in origine poi diventato quel “Mis Amour” che se anche le Maggioranze linguistiche italiane non capiscono del tutto, non importa poi tanto, importa ascoltare la dolcezza dei versi e della musica che gli fa da sottofondo.





Lions  Relazione per il convegno
Lions Club Sesto Somma Host
26 settembre 2023
 
 Il plurilinguismo nella musica popolare e colta 
 

 

Introduzione
“Per scambiare le proprie opinioni o per commerciare patate è utile che ognuno di noi conosca la lingua dell’acquirente. Per esprimere creatività è indispensabile che ognuno di noi si serva della propria lingua. Non c'è il gusto, il tempo, per inventare la lingua, per divertirsi a inventare le frasi, fatto che invece è rimasto nei piccoli centri dove ancora si parlano, appunto, i cosiddetti dialetti, gli idiomi locali”.
Parola di Fabrizio De André.

Esperanto

Tutti conosciamo il tentativo, direi fallimentare, sin dalla seconda metà dell’800, dell’invenzione dell’Esperanto come lingua che sarebbe dovuta diventare universale. Ne sono state create alfabeti e regole sintattiche, articoli, pronomi, proposte per diventare la lingua ufficiale dell’Unione Europea, ma sino ad oggi senza successo e niente affatto conosciuta né divulgata. Per tornare a noi, la lingua italiana quindi continua ad essere vivace da molti secoli a questa parte, proprio per il fatto che si nutre di questi idiomi locali, tanto è vero che quando ci incontriamo di fronte ad una frase particolarmente divertente, spiritosa, ingegnosa, diciamo: ‘Eh beh, questa sì, è una frase idiomatica’. È soltanto per questo motivo che questi dialetti locali, non fosse altro che per fornire di qualche cosa di inventivo e di nuovo alla lingua nazionale, tutti ci auguriamo che continuino a resistere e ad esistere.

Folklore e dialetto-una doverosa distinzione
Desidero quindi fare una distinzione fra la canzone folkloristica della tradizione popolare, spesso alimentata da testi dialettali, e la tradizione dei cantastorie, antesignani di coloro che oggi sono chiamati cantautori, mutuando il termine dalla prima apparizione pubblica sulla scena di un cantante-autore dei propri testi e della propria musica: mi riferisco a Domenico Modugno e alla sua “Nel blu dipinto di blu”, alias “Volare”, presentato nel 1958 a Sanremo. La storia ormai vuole che sia la canzone italiana più diffusa e conosciuta in tutto il mondo, ma che si contente il primato con una canzone italiana dialettale napoletana di cui parlerò più avanti.

Le mondine
Per tornare alla tradizione popolare-dialettale della trasposizione in musica-canzone, forse il brano più conosciuto a livello nazionale che potremmo datare fra il diciannovesimo e ventesimo secolo, è il canto delle mondine novaresi e vercellesi, “Sciur padrun da li beli braghi bianchi”. Non a caso la prima rappresentazione, ovvero la trasposizione in pubblica esecuzione, è dovuta proprio ad una mondina novarese di origine mantovana, (o viceversa) Giovanna Daffini, che la portò nei teatri e nelle piazze negli anni ‘60. Fu tra i protagonisti maggiori del Nuovo Canzoniere Italiano che già dagli anni ’60 si proponeva il recupero di testi e ballate popolari - dialettali al quale aderirono artisti come Enzo Jannacci, Caterina Bueno, Milly, Fausto Amodei, Nanni Svampa, solo per citare qualche nome di spicco.
Seguirono la versione più nota di Gigliola Cinquetti, ma anche da Sandra Mondaini e Anna Identici, e forse l’ultima citazione è addirittura nel testo di un brano di dieci anni fa, nel 2013, ad opera di Elio e le Storie Tese. Questo per far comprendere l’attualità nel testo-canzone-dialettale. Potremmo definirlo uno fra i primi canti di rivendicazione sociale:
Signor padrone con i pantaloni bianchi immacolati, abbiamo lavorato per te, adesso dacci il nostro denaro che prendiamo il treno alla stazione e ce ne vogliamo andare lontano da qua. In realtà esiste una variazione meno conosciuta:
“Sior padrù de l'urelòc”,
Signore e padrone dell'orologio, quando arriva l’ora tarda e il sole è al tramonto, mi fai l'occhiolino… Signor padrone con le braghe a righe facciamo in fretta allora, che poi torniamo a casa.
E ogni riferimento all’ora tarda è fin troppo intuibile.
Bella Ciao
E non posso fare a meno di citare la “Bella Ciao” delle mondine, che seppur non sia una canzone scritta in dialetto, nacque anch’essa fra le risaie del novarese, si dice intorno al 1905-1906 e ovviamente come spesso accade per questioni di rivendicazioni paternalistiche, c’è chi sostiene che sia anteriore alla più nota “Bella Ciao” della resistenza e chi invece, in maniera decisamente, direi partigiana, ne attribuisce la nascita nel quinquennio della seconda guerra. Bella Ciao ha avuto ed ha tuttora un successo mondiale negli spettacoli di Goran Bregovic e conosciuta in Francia per la versione che ne fece Yves Montand. È forse una delle canzoni italiane maggiormente conosciute in tutto il mondo competendosi il primato con la già citata “Volare”.

Non posso non ricordare la bonifica della lingua italiana, messa in opera nel ventennio mussoliniano, e lo definisco così come la storiografia ce lo racconta, perché proprio Mussolini volle che venisse eliminata qualsiasi parola dialettale e addirittura desinenze straniere dalla lingua italiana, con la riforma della scuola del 1923 conosciuta come riforma Gentile, ministro della pubblica istruzione del primo governo Mussolini. La proibizione all’uso del dialetto durò sino al 1943.

Napoli e la Campania
Torniamo alla canzone popolare dialettale. La rinascita della tradizione popolare dialettale, riprese vigore quindi a partire dagli anni 50 più o meno in tutte le regioni italiane. Le citazioni maggiori riguardano tutte le regioni, soprattutto la tradizione napoletana, che vede la nascita della Nuova compagnia di canto popolare, fondata da Carlo D’Angiò, dal nome sicuramente nobile, insieme a Eugenio Bennato.
Artisti popolari come Teresa De Sio, Peppe Barra si unirono in un secondo tempo. Nella tradizione dialettale napoletana come non citare le prime composizioni di Pino Daniele, la sua “Napule è” composta all’età di 18 anni: è una denuncia di odio e amore verso una città piena di contraddizioni, indifferenza e paura, ove l’unica via d’uscita o di riscatto è una vincita al lotto per fuggirne lontano.
Ma tornando a qualche anno prima, unica eccezione all’ostracismo mussoliniano ormai decaduto da un anno, è la notissima canzone “Tammurriata nera” composta nel 1944, storia presumibilmente vera, anzi vera al 100%, e quindi riconducibile alla tradizione dei cantastorie, (ovvero di coloro che prendendo spunto da una notizia vera, la diffondevano su arie musicali orecchiabili) che narra di un bambino di colore dato alla luce in quell’anno, presumibilmente da un soldato americano. Tanto popolare e famosa da essere annoverata fra il repertorio di Renato Carosone e Roberto Murolo. Interprete il primo di brani dialettali, pseudo italianizzati, ma anche di brani in inglese, era più musicista che paroliere attento all’uso del dialetto, seppur i suoi brani siano tuttora apprezzati e cantati in tutto il mondo. Roberto Murolo dal canto suo fu molto attento alla tradizione scritta sia popolare-dialettale che compositiva, fu apprezzato da tutto il mondo cantautorale attuale (famosi i suoi duetti con Mia Martini) sino ad una apparizione pubblica in un concerto del 1°maggio a Roma accanto proprio a Fabrizio De André, che a sua volta lo omaggiò incidendo su disco una delle sue canzoni, “La Nova Gelosia”. La performance pubblica di Roberto Murolo e Fabrizio De André è una canzone-satira in finto napoletano che narra di un camorrista incarcerato visto in TV nella gabbia degli imputati con il cappotto cammello e rispettato dagli altri imputati, anzi adulato da un secondino pieno di attenzioni e favori nei suoi confronti. La canzone si intitola Don Raffaé. Singolare fu lo scambio di lettere che Raffaele Cutolo, riconosciutosi nel testo della canzone, inviò a Fabrizio De André stesso come ringraziamento per la citazione, a suo dire, d’onore, ma a cui Fabrizio De André non rispose, disse per deficienza di convenienza. Il figlio di Raffaele Cutolo, per inciso fu “giustiziato” a Tradate nel 1990, dove era in soggiorno obbligato.

Che dire poi del testo di “O sole mio”. Composta alla fine del 1800 è universalmente conosciuta con interpreti quali Enrico Caruso, il vero traghettatore della canzone dialettale nel mondo, e di Luciano Pavarotti, sino alla traduzione in inglese che ne fece Elvis Presley. Si tratta di una delle poche, forse unica traduzione in altra lingua di una canzone popolare dialettale. La fortuna universale della canzone volle però che i due autori, che non ne poterono rivendicare il diritto, morirono poveri, un caso anomalo di Artisti Maggiori rimasti in bolletta... Leggenda vuole anche che il testo fosse dedicato ad una nobildonna di Oleggio in provincia di Novara, Anna Maria Vignati Mazza, che aveva seguito il marito deputato del Regno d’Italia a Napoli.

Puglia
Per rimanere nella tradizione musicale del sud Italia, la Puglia ancora oggi vede la rappresentazione ormai da molti anni della tradizione della pizzica e della tarantella nella “Notte della Taranta”, celebrata da tutti i maggiori artisti italiani e stranieri. Credo a ragione che sia la maggior rappresentazione della trasposizione in musica della tradizione popolare che ha coinvolto artisti da tutto il mondo. Goran Bregoviæ, bosniaco, Ludovico Einaudi, Mauro Pagani, Piero Milesi, Fiorella Mannoia, Steward Copeland statunitense dei Police, Phil Manzanera britannico di Londra fondatore dei Roxy Music, sono solo alcuni dei maestri concertatori.

Calabria
Va segnalata forse una delle poche canzoni dialettali calabresi di rilievo nazionale interpretata da Ornella Vanoni che risale al 1958. Si tratta del testo anonimo della “Canzone dei carcerati calabresi”. Un’altra interpretazione a cura di Davide Bernasconi, di cui rivelerò più avanti il nome d’arte, è canzone con testo italiano-calabrese, ma anche greco “Dove il mare non basta”. Non ultima, l’interpretazione di Mia Martini, calabrese di nascita nella canzone “Lucy”, dove le due strofe in dialetto recitano la filastrocca che il nonno dell’artista raccontava a lei ed alle sorelle. E infine la canzone del calabrese cosentino Otello Profazio nella canzone “Melissa” un testo sulla strage del 1949 ad opera della polizia dell’allora ministro Mario Scelba nel governo De Gasperi.

Sicilia
La Sicilia è invece ricca di tradizioni popolari trascritte in canzoni spesso d’autore. Franco Battiato, forse il maggior interprete contemporaneo, già dal 1979 nel suo famoso album “L’era del cinghiale bianco” inserì una canzone popolare in siciliano, “Stranizza d’amuri”.
Ma forse la maggior artista della tradizione siciliana è Rosa Balistreri. Collaborò con Dario Fo e negli anni settanta incise in dialetto siciliano canzoni poi riprese da Carmen Consoli, catanese, e venne ricordata recentemente in uno speciale Rai con testimonianze di Andrea Camilleri, Otello Profazio e da Leo Gullotta, anch’egli catanese. A lei si devono decine di canzoni popolari-dialettale interpretate sino agli anni ’90 e poi riprese successivamente da decine di artisti.

Sardegna
Per saltare a piedi pari in un'altra isola, l’interprete più acclamata e conosciuta della terra sarda è sicuramente Maria Carta. Ha collaborato con Angelo Branduardi, (varesotto della Valcuvia per adozione), Andrea Parodi leader dei Tazenda, Franco Simone di Arona, Severino Gazzelloni, famoso violinista, e molti altri artisti italiani e stranieri. Maria Carta è una delle poche artiste popolari tradizionali dialettali ad aver partecipato ad importanti festival canori all’estero, insieme appunto ad artisti internazionali, cito Amalia Rodriguez, ad Avignone, a New York, a San Francisco.
Il “Ballu tundu” sardo deve anche a lei la conoscenza universale. A lei si deve inoltre l’interpretazione della “Ave Maria-Deus ti salvet Maria” composta in sardo logudorese nel diciassettesimo secolo, presentata a Canzonissima nel 1974 che le diede il secondo posto nella classifica canora.
La canzone in dialetto sardo (ma esistono varie lingue sarde, dal logudorese al barbaricino, il campidanese e il nuorese) è stata ripresa da decine di altri artisti, fra cui i Tazenda e Fabrizio De André. Di quest’ultimo ne parleremo dopo. Accenno solo le sue canzoni in sardo barbaricino alcune delle quali hanno fatto sorridere per la dissacrazione di detti popolari sardi. Altre in lingua italiana narrano delle tradizioni popolari sarde.
I Tazenda, altro gruppo sardo, videro Andrea Parodi interprete delle tradizioni sarde portate alla ribalta nei teatri nazionali, a Sanremo ad esempio nel 1992, con la canzone “Pitzinnos in sa gherra” scritta da Fabrizio De André che comparì a fatica nei titoli e fra gli autori, ed in un’altra occasione i Tazenda collaborarono con Pierangelo Bertoli.

Emilia-Romagna - Modenese
Di quest’ultimo (Pierangelo Bertoli) vorrei ricordare l’album in dialetto modenese “S’at ven in meint”, con la partecipazione in un brano di Caterina Caselli, oggi affermata imprenditrice del mondo discografico. Questo per sottolineare la presenza costante delle proprie origini andando anche contro una certa sorta di industria discografica che per alimentarsi non vedeva di certo di buon occhio la presunta scarsa diffusione che avrebbero avuto opere dialettali. Smentiti proprio dal successo popolare mondiale della metà degli anni ’80 dall’album “Creuza de ma” di Fabrizio De André.

Roma e il Romanesco
Gabriella Ferri, Gita a li castelli
Antonello Venditti, Roma capoccia
Alberto Sordi, M’andò vai
Nino Manfredi, Tanto pe’ cantà
Lando Fiorini, Roma nun fa la stupida stasera
Gigi Proietti, Nun je da retta Roma
sono solo alcuni degli artisti romani o quantomeno laziali che hanno tramandato, cantato e reso popolari gli stornelli in romanesco. Fra questi esiste un’eccezione unica.

Eccezione
Non ho trovato alcuna canzone popolare dialettale ritradotta in Italiano se non, appunto come unica eccezione, il brano tradizionale friulano reso celebre dal Coro della Sat, l’altrettanto celebre coro alpino. Francesco De Gregori è stato forse l’unico artista a tradurre e interpretare in Italiano il famoso brano “Stelutis Alpinis” seppur con licenze di traduzione che a modo suo ne valorizzano il testo. È forse l’unico tentativo di riappropriazione nella lingua italiana di un testo tradizionale dialettale. Tanto di cappello al Principe.

Veneto
“La biondina en Gondoleta”, “Me compare Giacometo”, “A porto Marghera” sono solo alcuni titoli popolari della trascrizione dialettale veneta. Un accenno colto, ma di scarsa conoscenza, sono alcune interpretazioni di Massimo Bubola, l’autore veronese della famosa canzone di Fiorella Mannoia, “Il cielo d’Irlanda”. In dialetto veneto ha interpretato “La ballata del ciel che s’ sbrega”.

Toscana
Poche interpretazioni nel dialetto di Toscana da parte di artisti maggiori, se non qualche brano a cura di Caterina Bueno, artista fiorentina scomparsa prematuramente che tenne a battesimo un giovane Francesco De Gregori che l’accompagnava alla chitarra e a cui De Gregori stesso dedicò la sua canzone “Caterina”.

Lombardia - Dario Fo
Capitolo a parte è doveroso soffermarci sulle tradizioni lombarde. Dario Fo, nativo di Sangiano, nel 1962 scrive una bozza di una commedia dal titolo “La passeggiata della domenica”, che vedrà le scene solo qualche anno dopo. Scrive anche le parole di un testo in milanese che si chiama “La mia morosa la va a la fonte”.
(Ho avuto queste informazioni direttamente da Mattea Fo, nipote di Dario Fo e presidente della Fondazione Fo). La musica viene scritta da un artista genovese che faceva parte della compagnia, tale Oscar Prudente, amico di un certo Luigi Tenco. E successivamente grande coautore di molte canzoni di Ivano Fossati. L’interpretazione della canzone viene affidata in un primo tempo a tale Enzo Jannacci, medico in erba che si dilettava di musica e teatro, ma in scena sarà lo stesso
Oscar Prudente a cantarla. Alla prima dello spettacolo inaspettatamente era presente in sala Fabrizio De André che nei camerini a spettacolo finito chiese a Dario Fo “chi è quel tale che ha cantato quella canzone, posso prenderne la musica?”. Dario Fo non si fece problemi a dire sì, senza interpellare Oscar Prudente e l’anno dopo Fabrizio De André pubblica un disco genericamente intitolato “Volume 1”, all’interno del quale c’era, e c’è tuttora, una delle sue maggiori canzoni di successo dal titolo “Via del Campo”. La morosa che va a la fonte con la sidela piena d’acqua, il secchio in mano e che le fa ballare l’anca, solleticando le fantasie di tanti ammiratori, nella canzone di Fabrizio De André diventa una bambina che fra i carruggi genovesi si vende per denaro.
Saltiamo per un attimo ad altri artisti milanesi e lombardi che hanno trascritto ballate popolari e dialettali passate ormai alla storia. Dalla “Bella Gigogin” a “La mia bela Madunina”, “Ma mi” canzone della mala di Ornella Vanoni, da Nanni Svampa, Lino Patruno, i Gufi, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Cochi e Renato, ci sono decine e decine di canzoni milanesi dialettali diventate popolari in tutta Italia. È impossibile citarle tutte.

Nanni Svampa
Fra le tante però, vorrei parlare di Nanni Svampa, guarda caso anche lui frequentatore del varesotto sino alla sua dipartita, perché ha tradotto in milanese un artista francese molto popolare: Georges Brassens. Questo artista francese che ha venduto ben più di Aznavour usava nei suoi testi dissacratori un linguaggio particolare: l’Argot. Una sorta potremmo dire di dialetto della mala francese, un linguaggio per certi versi incomprensibile nella traduzione letterale. Fatto di parole tronche e accenti aritmici. Potremmo definirlo una sorta di codice irregolare della mala. Faccio a questo punto un inciso riportando una dichiarazione di Fabrizio De André all’indomani della morte di Georges Brassens nel 1981:

"Brassens per me è stato un mito, come artista e come uomo. Mi sono accostato all'anarchismo per merito di Brassens, perché avevo di fronte non pura teoria, ma un esempio vivente. Brassens ha avuto un'enorme influenza su di noi, voglio dire su quel gruppetto di genovesi che voleva far canzoni in modo nuovo. In modo particolare ha influito su Gino Paoli e su di me. Era un modello nitido, rappresentava il superamento dei valori piccolo-borghesi. È stata una fatica enorme tradurre Brassens in Italiano. Lui si serviva molto dell'Argot, che da noi non ha corrispettivo. L'Argot lo parlano a Parigi come nel sud. Da noi esistono tanti dialetti, non un gergo comune. Ho dovuto riadattare l'italiano all'Argot, reinventando espressioni e termini non esistenti nel linguaggio corrente".

Figlio del vicesindaco di Genova, nonché fondatore della Fiera del Mare, oggi Salone Nautico, nonché presidente dell’Eridania Zuccheri e del Resto del Carlino, Giuseppe De André, fratello di Mauro De André prematuramente morto in Brasile, era allora l’avvocato di fiducia di Raul Gardini, sostituito nelle sue funzioni di avvocato da Sergio Cusani, Fabrizio De André deve la sua fortuna compositiva e popolare a questo artista francese anche per il modo controcorrente di affrontare temi molto discussi (la pena di morte, la prostituzione, la miseria), senza mai dare un giudizio nei suoi testi e traduzioni, ma lasciando all’ascoltatore la possibilità di trarre una propria opinione fornendo un punto di vista differente dalle maggioranze.

Tornando a Nanni Svampa, questo artista nel 1965 si è addentrato nella traduzione in milanese dei testi di Georges Brassens. Per far capire la dissacrazione nei testi tradotti appunto in milanese, dal francese citerò solo

“El bamborin de la miee d'on ghisa”, “L’ombelico della moglie di un poliziotto”. Ho visto tanti ombelichi, ma mai quello della moglie di un poliziotto. Mi voglio togliere questa soddisfazione prima di partirmene. Se ne intende bene il seguito del testo. Oppure la canzone tradotta in milanese “El gorilla”, “Il Gorilla”, che scappato dalla gabbia spera di togliersi la verginità correndo dietro dapprima ad una vecchietta, ma poi invertendo la rotta verso un giudice con la toga che sul più bello gridava ‘Mamma salvami’, come il tale che il giorno prima aveva condannato alla ghigliottina.
Alcune traduzioni di Georges Brassens sono state fatte, come già riportato dalle sue stesse parole, da Fabrizio De André in Italiano, in maniera forse più edulcorata, ma non meno significativa.

Davide Bernasconi
Senza e per nessuna ragione tralasciare e tornare a parlare di un certo già citato Davide Bernasconi. Artista che ha saputo conciliare il dialetto con arie scozzesi, celtiche, intrise di rock e reggae mescolate ad arie del dialetto comasco del tutto estraneo a qualsiasi operazione commerciale, intesa dal punto discografico che lo ha ripagato comunque di successo, specialmente di apprezzamenti della critica musicale italiana colta. Il suo nome d’arte è Davide Van De Sfroos.

Piemonte
Fra le tradizioni dei cantastorie piemontesi Gipo Farassino è sicuramente l’artista che nel suo repertorio annovera il maggior numero di testi tradizionali dialettali.
“Le canssôn d' Porta Pila” ovvero Porta Palazzo, scritte e cantate in torinese si rifanno ad antiche filastrocche della tradizione popolare. Potrei citare Costantino Nigra che a cavallo dell’800 e del 900 scrisse una intera antologia dei testi piemontesi “I canti popolari del Piemonte”. E per rispetto alla mia natalità, vorrei citare due raccolte di canzoni popolari nel dialetto di Galliate, in provincia di Novara. Un dialetto unico, né piemontese né lombardo, molto simile al francese gallo-celtico, che trasse origine al tempo della spedizione di Annibale contro i Romani quando con i Galli e gli Insubri si insediarono sulle rive del Ticino, fra Galliate e Turbigo. Ebbene, tre volumi con le parole dialettali commentate e spiegate con traduzioni in Italiano e due raccolte su dischi eseguiti con l’accompagnamento della Corale di Santa Cecilia, al tempo diretta da un direttore dal quale ho ereditato il cognome, mio padre.

Provenzale
Un altro brano della tradizione popolare dialettale piemontese si intitola “Bello Caio”.
Cantato in lingua provenzale antica, fu inciso da Fabrizio De André con un gruppo piemontese della Val Grana, precisamente a Sancto Lucio di Coumboscuro in provincia di Cuneo. Ha assunto il titolo di “Mis Amour” – “I miei Amori”, ed è stata incisa su disco negli anni 90.
Si tratta di una antica canzone provenzale rimasta per anni dimenticata, sino a quando venne riscoperta e un paio o più di strofe vennero ricantate appunto con Fabrizio De André.
Ho avuto il privilegio di avere il dono del testo completo di oltre nove strofe appuntate specialmente sulla pronuncia provenzale dagli stessi trascrittori e lo conservo con altri manoscritti inediti.
La canzone doveva far parte del suo ultimo disco “Anime salve” ma non trovò spazio fra i solchi del vinile.

Liguria
Torniamo a parlare della scuola genovese del cantautorato, che non solo annovera artisti che hanno cantato in Italiano, ma una moltitudine di canzoni in genovese e ligure, derivanti dalla tradizione popolare che in tutta la Liguria ha un seguito ancora oggi molto nutrito.
“Ma se ghe penso” ‘rivedo il mare, la Lanterna, i monti, la Genova illuminata e la Foce e allora penso di tornare, a posare lì le mie ossa e a formare di nuovo il mio nido’. La canzone di chi Genova l’ha lasciata per espatriare. Gino Paoli, Mina, Gilberto Govi fra gli interpreti. “A Seissento” di Piero Parodi, ‘Avevo comprato la seicento, ma in un attimo me l’hanno fatta a pezzi, in via Larga mi hanno rubato la targa, e davanti alla porta la ruota di scorta’. Come per “La Balilla” di Giorgio Gaber.
“Bossa figgeu” di un certo Natale Codognotto, al secolo Natalino Otto, che su ritmi sudamericani consiglia ai monelli che giocano a palla sulla piazza di scappar via che arriva il vigile. E poi “Trilli Trilli” che recita un po’ così, ‘…e siamo di Genova, e siamo della foce, se ci girano le scatole non prendiamo più moglie, finché al mondo ci sarà la moglie del mio vicino non prendiamo più moglie per un bel belino’.
Un rapido accenno a meno conosciute canzoni firmate da un giovane Fabrizio De André, come a “Famiggia di Lippe”, interpretate ancora da Piero Parodi, forse il più apprezzato autore e interprete della tradizione genovese e ligure.

Genova
Desidero da principio accennare ad un certo Edward Neill. Fiorentino di nascita, di madre genovese e padre irlandese, aveva un piccolo studio in via San Luca, nel pieno centro dei carruggi di Genova, e la sua passione era Nicolò Paganini, sul quale ha scritto e pubblicato un gran numero di opere. Dal suo studio di Genova, con un registratore a bobina Geloso cominciò a girare per l’entroterra ligure e piemontese registrando antiche ballate e filastrocche dagli anziani del posto. Poi tornava a Genova e nel suo studio ogni tanto capitavano un certo Luigi Tenco e un certo Fabrizio De André, due ragazzini curiosi. Al che Edward accendeva il Geloso, faceva ascoltare i brani registrati e microfono e chitarra in mano chiedeva di ricantarli. In questo modo almeno sette brani furono reincisi da Fabrizio De André ed altri tre da Luigi Tenco. Se ne è scoperta l’esistenza solo nel 2001 quando Edward Neill è mancato ed il suo materiale, circa ottomila registrazioni, in assenza di eredi è giunto alla Fondazione De Ferrari. La sua immensa nastroteca non è ancora stata del tutto ascoltata. La grande scoperta dei brani di Luigi Tenco e Fabrizio De André ha permesso la pubblicazione di una canzone popolare in piemontese donata alla Fondazione De André stessa. Si tratta di “Maria Giuana”, brano inciso anche da Orietta Berti nel 1974. Di Edward Neill per finire vorrei segnalare il volume “Rime popolari genovesi”, edito da “San Marco dei Giustiniani” editrice a Genova, nel quale si trovano una moltitudine di filastrocche in dialetto poi diventate canzoni popolari. “Volta la carta” di Fabrizio De André è una di queste, cantata però in Italiano con evidenti agganci alla filastrocca.

Crêuza de mä
La vera rivoluzione dialettale nelle canzoni commerciali fu fatta proprio da Fabrizio De André, che nel 1984, contrario ad ogni sorta di legge del mercato discografico, volle pubblicare l’intero album “Crêuza de mä” in lingua genovese. Parlo di lingua perché non è possibile individuare nei testi il vero dialetto genovese, essendo i brani scritti in genovese antico, mutuato dai testi e dal vocabolario della metà dell’ottocento di Giovanni Casaccia. Nel capitolo seguente uno studio sulla lingua dialettale genovese.

Un po’ di curiosità sul lessico dialettale genovese nei testi di Fabrizio De André

Alcuni versi nei testi in dialetto genovese tratti da antichi proverbi o usanze.
Nella sopra citata canzone A Dumenega si narra di una passeggiata domenicale, ovvero:

Quandu ä dumenega fan u gíu
Cappellin neuvu neuvu u vestiu
Cu 'a madama a madama 'n testa
O belin che festa o belin che festa
A tûtti apreuvu ä pruccessiún
D'a Teresin-a du Teresún
Tûtti a miâ ë figge du diàu

Quando alla domenica fanno il giro
con il cappellino e il vestito nuovi
oh che bella festa
tutti dietro alla processione
della Teresina del Teresun
tutti a guardare le figlie del diavolo


Le figlie del diavolo, ovvero le prostitute vestite a festa con cappellino con il fiocchetto in processione per la città. Fra queste la più famosa delle maitresse di allora, la Teresina moglie del Teresio. Il poeta Remo Borzini, amico di Giuseppe De André ha scritto un libro sulle case di tolleranza a Genova, nonché sulle Osterie più rinomate della città. E poi dicono che cultura e vizio non vanno d’accordo...

Per dare una spiegazione storiografica corretta del testo-dialetto della canzone non posso far altro che riprendere quanto la storia di Genova narra: in realtà la prostituzione nella Genova marinara era non solo tollerata, ma gestita in maniera potremmo dire esemplare. I quartieri di Genova, da via Montalbano (oggi via Garibaldi) alla Maddalena erano spesso ‘appaltati’ a gestori delle case chiuse, che il più delle volte si identificavano con la municipalità stessa. Le lavoranti, le signorine, erano tutelate dal comune previo il pagamento di 5 genovini al giorno, avevano libera la giornata della domenica quando in effetti era loro consentita una passeggiata per le vie della città e venivano visitate da un medico una volta a settimana. L’obolo versato giornalmente contribuiva alla costruzione del nuovo molo sul porto antico (oggi Molo Vecchio, dalla Calata Mandraccio ai Magazzini del cotone, proprio di fronte alla Via Al Mare Fabrizio De André) tanto che il podestà stesso al calar del sole ordinava di suonare la campana per avvisare i clienti di andarsene dai postriboli perché da lì a poco sarebbe passato a riscuotere il denaro. Non è invece certo, anzi non era decisamente così, che le prostitute lavorassero dentro il porto. Avrebbero creato scompiglio fra i lavoratori del porto stesso, i camalli, ed era loro proibito l’ingresso.
La tutela di queste signore-lavoratrici ormai non più in età, diciamo per la professione, era viva anche a Venezia, dove le prostitute erano relegate a vivere a spese del comune, in pensione diremmo oggi, alla Cà-Rampani, da cui oggi il termine ‘carampana’ citato anche nella Treccani.

In questo altro testo in dialetto si narra del cuoco che si sveglia la mattina presto per preparare il piatto di carne più famoso di Genova: La cima Genovese.

Ti t'adesciâe 'nsce l'èndegu du matin
Ch'á luxe a l'à 'n pé 'n tèra e l'átru in mà

Ti sveglierai sull'indaco del mattino,
Quando la luce ha un piede in terra e l'altro in mare...

Un antico proverbio dei marinai recita più o meno così:
“Il vero marinaio ha un piede in terra e l’altro in mare”.
Inoltre, dalle alture di Genova, da Castelletto, da Albaro, ma non solo, l’alba è di colore azzurro indaco. É il momento in cui i pescatori salpano.

Ti mettiâe ou brûgu réddenu 'nte 'n cantún
Che se d'â cappa a sguggia 'n cuxín-a á stria
A xeûa de cuntâ 'e págge che ghe sún …

Metterai la scopa dritta in un angolo,
Ché se dalla cappa scivola in cucina la strega
A forza di contare le paglie che ci sono…

Antiche credenze recitano che se la strega tenta di entrare dal camino per sfuggire al malocchio bisogna appoggiare agli alari una scopa di saggina, così che sia costretta a contare tutte la pagliuzze prima di entrare in cucina. Oppure cospargere il pavimento di sale.

Questo altro testo è tratto dal brano in genovese “D’ä mæ Riva”, “Dalla mia riva”. Si narra di un marinaio che prima della partenza contempla e riordina i suoi pochi averi stipati nel suo baule.


E sun chi affacciòu
A sta bàule da mainà
E sun che a mia
Trèi camixe de velluu
Duì cuverte u mandurlìn
E 'n caima de legnu duu
E 'nte 'na beretta neigra
A teu fotu da fantin-a
Pe puèi baxa acùn Zena
'Nscià teu bucca in naftalin-a

E son qui affacciato
Su questo baule di marinaio
E son qui a guardare
tre camicie di velluto
due coperte e il mandolino
e un calamaio di legno duro
E in un berretto nero
la tua foto da ragazza
per poter baciare ancora Genova
sulla tua bocca in naftalina.

In naftalina: perché ?
Perché la naftalina uccide i pidocchi e i marinai per mare al tempo non avevano, diciamo così, tutte le comodità di cui godiamo oggi. É quindi logico che la foto ingiallita della morosa conservata nel berretto sapesse di naftalina.

Un altro breve testo dalla canzone “Sidun”, scritta per la strage di Sidone nel Libano anni ’80.

Ciao mæ 'nin
l'ereditæ L'è ascusa
'Nte sta çittæ
Ch'a brûxa, ch'a brûxa
Inta seia che chin-a
E in stu gran ciaeu de feugu
Pe a teu morte piccina

Ciao bambino mio
l'eredità è nascosta
In questa città che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte


Il saluto drammatico di una madre al figlio ucciso dopo la battaglia di Sidone nel Libano del 1982 e stritolato dai cingoli di un carro armato. Fabrizio De André è sempre stato molto attento e vicino ai bambini e agli adolescenti. Senza che le ribalte giornalistiche lo sapessero, spesso si recava nelle scuole e nei licei sollecitato a parlare dei suoi testi ai ragazzi. La prima di queste partecipazioni in sordina è avvenuta a Bastia, in Corsica, dove gli insegnanti utilizzavano i suoi testi in genovese per far comprendere il “linguaggio corso antico” tuttora parlato a Bonifacio, l’unica vera città della Corsica dalle sembianze e modi genovesi e dove ancora si parla il l’antico dialetto genovese. Successivamente Fabrizio De André compose un testo in dialetto sardo per la brutalità della guerra affrontata dai bambini. Il testo era Pitzinnos in sa gherra, portato alla ribalta a Sanremo dai Tazenda.

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Biografia

Mariano Brustio, classe 1959, un passato ultra decennale nell’Olivetti degli anni d’oro, ha scelto la libera professione che ancora oggi svolge presso il Centro di Ricerca della Commissione Europea, al JRC di Ispra in provincia di Varese. In questa vita, la numero uno, si occupa di collaudi e collabora alla ricerca sulle reti intelligenti, ovvero le Smart Grid, non tralasciando di fornire il suo supporto al mondo delle nascenti Auto Elettriche EV avendo la fortuna di vederne in anteprima i prototipi in collaudo, ma di cui non può assolutamente parlare. Dicono sia un discreto informatico, sebbene abbia all’attivo una mancata laurea in Scienze Politiche.
Nella sua vita parallela, la numero due, del resto il suo quadro astrale lo annovera fra i Gemelli, si considera curioso di tutto. Chi lo conosce però non lo ritiene un invadente, anzi preferisce lavorare dietro le quinte. Figlio di artisti, lui stesso si è cimentato con l’arte, ma purtroppo, non essendo annoverato fra gli artisti maggiori, deve far coesistere questa con la vita numero uno, almeno per il proprio e altrui sostentamento. E in questo dualismo ha avuto il privilegio di annoverare preziose amicizie con questi Artisti Maggiori ed anche l’occasione di collaborare alla stesura dei volumi bio-fotografici su Fabrizio De André “E poi il futuro” - Mondadori 2001, “Belin, sei sicuro?” - Giunti 2003, come coautore al libro “Volammo Davvero” – edito da Fondazione De André - Bur 2007 e La nave di Teseo - 2021 insieme a tanti  altri autori di fama, fra cui il Premio Nobel Dario Fo. Per diversi mesi ha lavorato fianco a fianco a Fernanda Pivano durante la preparazione del volume "The Beat Goes On" – Mondadori, che gli ha fatto dono della sua preziosa amicizia. Storico socio fondatore della Fondazione Fabrizio De André Onlus, e collaboratore di lunga data, ha curato decine di mostre itineranti su Fabrizio De André e la sua opera, dal 2000 ad oggi, spesso con il regista Pepi Morgia. Ha pubblicato suoi scritti di musica ed economia e collaborato alla realizzazione del CD “Ed avevamo gli occhi troppo belli” ed al DVD “Ma la divisa di un altro colore” per la “Editrice A”. Ha collaborato alla pubblicazione di un dossier relativo al cantautore francese Georges Brassens che L’Espace Brassens, il museo dedicato a questo grande artista francese nella sua città natale a Sète in Francia, ha pubblicamente elogiato per l’accuratezza ed il contenuto del testo. Ha collaborato alla realizzazione del DVD “Fabrizio De André in Concerto” - edito dalla Fondazione Fabrizio De André - BMG-Ricordi 2004 curandone la ricerca iconografica e la prima dettagliata discografia ufficiale, poi riutilizzata da altri autori. Ha inoltre collaborato alla realizzazione della mostra dedicata a Fabrizio De André promossa dal Palazzo Ducale di Genova nel 2009 e in tutto il resto d’Italia. Nel 2016 ha pubblicato un suo racconto sul volume "Nelle ferite del Tempo" i cui proventi sono stati devoluti interamente ai terremotati di Amatrice. Ha recensito racconti e romanzi di vari autori, non solo in ambito musicale e ne ha curato la presentazione pubblica in Italia, anche in varie stazioni radiofoniche maggiori. Il libro Mondo Vinile a cura del giornalista RAI-Marco Tesei (Ed. Zona 2019) contiene un suo saggio particolarmente incentrato sulla Genova cantautorale e su Fabrizio De André.  É stato citato più volte da Artisti Maggiori, come fonte inequivocabile di verità appena svelate.










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Rassegna Stampa

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https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2002/04/05/de-andre-anarchico-parole-canzoni.html

https://www.huffingtonpost.it/dori-ghezzi/leonard-e-fabrizio-quelle-linee-parallele-percorse-dai-grandi-poeti-a-volte-si-incontrano_b_12913500.html

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Fotografie  © Mariano Brustio

Leonard Cohen - Milano Teatro Smeraldo - 1993
Mariano Brustio Leonard Cohen 1993





Leonard Cohen - Milano Teatro Smeraldo - 1993
Mariano Brustio Leonard Cohen 1988

Leonard Cohen - Milano Teatro Smeraldo- 1993

Mariano Brustio Leonard Cohen 1988

Leonard Cohen - Milano Teatro Orfeo - 1988
Mariano Brustio Leonard Cohen Perla Batalla Milano Teatro Orfeo 1988

Leonard Cohen - Milano Teatro Orfeo - 1988

Mariano Brustio Leonard Cohen Milano Teatro Orfeo 1988

Leonard Cohen - Milano Teatro Orfeo - 1988

Mariano Brustio Leonard Cohen Milano Teatro Orfeo 1988

Leonard Cohen - Milano Teatro Orfeo - 1988

Mariano Brustio Leonard Cohen Milano Teatro Orfeo 1988

Leonard Cohen - Milano Teatro Orfeo - 1988

Mariano Brustio Leonard Cohen Milano Teatro Orfeo 1988

Leonard Cohen - Milano Teatro Orfeo - 1988

Mariano Brustio Leonard Cohen Milano Teatro Orfeo 1988

L'ultima mail premonitrice che Leonard Cohen mi inviò un paio di mesi prima di andarsene - 2016
Saluti da Leonard Cohen

Fabrizio De André - Novara 1998

Mariano Brustio Fabrizio De André Novara

Fabrizio De André - Novara 1998

Fabrizio De André Cristiano De Andrè mariano Brustio Novara

Fabrizio De André - Novara 1998

Mariano Brustio Fabrizio De André Novara

Fabrizio De André - Novara 1998

Mariano Brustio Fabrizio De André Novara

Fernanda Pivano
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Fabrizio De André - discografia ragionata

Sebbene decine di siti e di libri riportino la discografia di questo Artista (e fra l'altro la prima discografia Ufficiale è presente sul DVD In Concerto dal Teatro Brancaccio di Roma del 1998, edito dalla Fondazione Fabrizio De André per la quale ho curato la redazione) ebbene ho deciso di integrare alcune informazioni attraverso le mia ricerche. Non mi sono interessato alle versioni dei dischi con la parolina diversa, la foto di profilo o frontale o con i colori diversi, le copertine dove è indicata la sede di Roma o Milano... e cose di questo genere che lascio ad altri, ad eccezione delle informazioni di rilievo e più significative per l'interprete o per la casa discografica. Sottolineo unicamente che tutta la produzione discografica Karim vede nelle varie copertine il solo nome di battesimo, ad eccezione di un raro caso e della raccolta in un unico Long Playing nel quale per la prima volta compare il cognome. Molto si è detto a questo proposito, mutuando e facendo proprie anche le parole stesse dell'autore, insieme peraltro ad informazioni del tutto inventate e supposizioni irreali. Rispetto nei confronti della famiglia, del cognome, volontà di non essere riconosciuto ecc. ecc. Forse fra le righe seguenti si potrà immaginarne la risposta. Qua di seguito le mie ricerche.

La casa discografica Karim

Nel 1960 Ivo Chiesa, fondatore del Teatro Stabile di Genova sin dal 1951, insieme a Pino Gualco, marito della nota attrice Olga Villi (Villani) sulle ceneri di una precedente impresa (dico impresa perchè non produceva praticamente nulla, se non distribuire prodotti altrui) specializzata nella emissione di dischi 78 giri soprattutto di Jazz distribuiti all’estero, fondarono la casa discografica Karim
(Edizioni Fonografiche). Gino Arduino, con precedenti esperienze in un negozio di dischi a Genova e successivamente fra i primi fondatori del negozio Ricordi sempre a Genova (poi produttore discografico di successo) ne diventa il direttore commerciale. Nel tardo 1961, si affianca ai due soci il già vicesindaco di Genova, (1955-56) nonché fondatore della Fiera del Mare e successivamente consigliere di amministrazione dell’Eridania, Giuseppe De André. La sua iniezione di capitali nel settembre del 1961 trasforma la Karim in Società per Azioni. Azione probabilmente voluta per l'interesse del figlio verso la musica jazz. La sua prima apparizione nella veste di musicista fu a Genova il 18 febbraio del 1958, componente del sestetto jazz, come pubblicato sul Corriere Mercantile,  per la inaugurazione del teatro "Vittorino da Feltre", collegio-istituto scolastico retto dai padri Barnabiti:  "Grazie specialmente all’ortodossia stilistica ed all’eccezionale affidamento che regna fra i suoi componenti ed agli apprezzatissimi “arrangiamenti” dei pezzi classici del jazz moderno, il sestetto (Modern Jazz Group) ha offerto un saggio di musica di jazz moderno riportandolo agevolmente a Tristano, Brubek ed agli artisti americani che tanto seguito hanno presso tutti i pubblici del mondo musicale. In “Gotta dance” arrangiato dal pianista Mario De Sanctis, in “Love me or leave me”, in “Cappuccino-Time”, in “Titti pigro” composto ed arrangiato dal Sax alto Titti Oliva, ma in specie in “Zebra-Crossine” un originale di A. Camell, eseguito come pezzo sperimentale di musica atonica, con arrangiamento di Mario De Sanctis, il pubblico ha potuto riconoscere nel sestetto la serietà di intenti di questi giovanissimi, ormai notissimi negli ambienti cittadini, nella ricerca del nuovo stile della musica jazz. I componenti del sestetto sono: Mario De Sanctis, pianista di sicuro avvenire, Titti Oliva sax alto, solista della perfetta esecuzione, Alberto Cameli sax tenore, Fabrizio De André rivelatosi nella chitarra elettrica, Alberto Carbone contrabbassista e Piero Berretta batterista dal gusto finissimo".  La successiva comparsa come attore-esecutore nel febbraio 1961  nella commedia Eva a gogò dalla parte di lui presso la Borsa di Arlecchino, teatro cabaret di Genova. Il cabaret-teatro genovese venne fondato dal gallerista Rinaldo Rotta e da Paolo Minetti (critico d’arte nonché gallerista) nel 1957 e vide per la prima volta un'esibizione di Fabrizio De André in qualità di esecutore anche di canzoni proprie.  Nello spettacolo di Gianni Cozzo diretto da Paolo Minetti,  presero parte Marzia Ubaldi, di cui leggeremo più avanti, Silverio Pisu ed altri, con musiche di Gino Paoli, Umberto Bindi, sotto la direzione ed elaborazione musicale di Carlo Stanisci. Il titolo era:

Eva a gogò - dalla parte di lui 02-03-1961 nel corso del quale Fabrizio stesso eseguì questi brani:

La priere (di Georges Brassens): non è dato di capire se l'esecuzione fosse stata fatta in lingua francese oppure tradotta in Italiano. Da quello che gli archivi delle carte De André conservati a Siena riportano, esistono in due tempi diversi trascrizioni presumibilmente da disco, di quattro strofe della canzone, con molte approssimazioni linguistiche, risalenti al 1960. Se ne potrebbe dedurre che l'esecuzione fosse in Francese.
Le bricoleur (canzone di Georges Brassens): questo testo è presente sul libro "La mauvaise réputation" di Georges Brassens, edito nel 1954 da ÈDITIONS DENOËL, 19 Rue Amélie, Paris VII°, pag. 38, ma interpretata dall'artista Patachou; una sola volta Georges Brassens ha interpretato questa canzone dal vivo, sollecitato proprio da Patachou.
Les coqueliquote:
le Carte De Andrè (specificherò più avanti di cosa si tratta) riportano autore sconosciuto. Rimane comunque una misteriosa canzone che personalmente attribuirei a Georges Brassens (ma non presente nella sua discografia); potrebbe essere la canzone Les croquants per assonanza con il titolo misterioso, oppure la canzone Il suffit de passer le pont nella quale esiste la parola simile coquelicot. Ma è una supposizione strettamente personale.
Merci mon Dieu (di Charles Aznavour);
Ballata per Miché (Fabrizio-Petracchi): la stesura risale al 1960 con appunti, annotazioni e parole differenti nelle Carte De André;
Canzone di tutti i tempi (Fabrizio-Petracchi);
La Nina del «Gambero blu» (Fabrizio-Petracchi);
Nuvole barocche (Fabrizio-Gianni Lario).

Apriamo a questo punto una doverosa ricerca su
Clelia Petracchi. Gli archivi Siae riportano questo nomitativo come "autore del testo" in diciassette canzoni, fra cui spicca il nome della cantante interprete Anna Identici. Il suo nome è associato a brani composti da G.P.Reverberi per la musica e orchestrazione (Per Te; Mi Amerai Un Po' Di Più; Tu, Cuore Mio). Oltre ad altre canzoni il cui produttore è Sergio Bardotti. Ma la cosa sorprendente è che Clelia Petracchi appare come autrice del testo nel brano Non aver paura il cui autore delle musiche è Arrigo Amadesi, compositore di innumerevoli brani fra cui, dagli archivi Siae, E fu la notte senza alcun accredito a Fabrizio De André. Non sarà per nulla facile districarsi fra titoli, codici, autori, compositori, orchestratori, stampe e ristampe, correzioni, mancanze, errori e una vera e propria confusione, ma ci proverò.

La prima pubblicazione di un disco Karim (ed a questo proposito esistono versioni contrastanti) fu un 45 giri di Anna Grilloni, artista ligure di genere folk, con un numero di catalogo KN 001 dell ottobre 1961. Nuvole Barocche quindi fu il seguente e conteneva il primo brano (forse, e si capirà più avanti) ad essere pubblicato con il nome Fabrizio sempre nell’ottobre del 1961 dalla casa discografica Karim su un 45 giri con il codice:

KN 101 (Nuvole Barocche - E fu la notte) 10-1961
che riportava appunto sul retro la già citata canzone E fu la notte. Compare sulla etichetta del disco fra gli autori di entrambi i brani il nome Carlo Cesare Stanisci insieme a Fabrizio. Ma ecco che compare il primo mistero, insieme ad una confusione difficile da districare: gli archivi Siae attibuiscono questo ultimo brano a Carlo Cesare Stanisci (che abbiam visto in Eva a gogò) e Arrigo Amadesi per la musica (già citato a proposito delle collaborazioni con Clelia Petracchi) insieme a Franco Franchi per il testo. Fabrizio come già detto non è citato fra gli autori. Non vi è di nuovo traccia negli archivi Siae di Carlo Stanisci  fra gli aventi diritto per Nuvole Barocche, nome che invece appare sulla etichetta del 45 giri. Ma del resto gli archivi Siae non comtemplano nemmeno il titolo Nuvole Barocche, né di Fabrizio, nè di Gianni Lario. Mentre curiosamente il nome Carlo Stanisci compare fra gli autori del brano Zanzara cha cha cha di Anna Grilloni, nel misterioso primo disco 45 giri della casa discografica Karim emesso con il codice KN 001. Per inciso, Anna Grilloni incise anche per la Gevox (Edizioni musicali Genova per la quale incisero anche Aldo De Scalzi e Augusto Martelli). Pare comunque, relativamente al KN 101 (Nuvole Barocche - E fu la notte) che la pubblicazione fu fortemente voluta dai fondatori stessi del cabaret-teatro, dove per la prima volta fu eseguita questa canzone. Rinaldo Rotta e Paolo Minetti, contribuirono anche al finanziamento e coprirono i costi della registrazione. Si comprende quindi che autori e arrangiatori fossero coloro che avevano lavorato in precedenza per la commedia Eva a gogò. L’esecutore dei brani (Fabrizio) tuttavia rimase misterioso almeno nel cognome omesso e così sarà per quasi tutta la discografia dei 45 giri Karim. Segue un mese dopo, nel novembre del 1961, la pubblicazione del secondo 45 giri Karim di Fabrizio, dal codice:

KN 103 (Ballata del Michè - Ballata dell'eroe) 11-1961
che per la prima volta presenta una copertina intera con una foto di un giovane Fabrizio alla chitarra, già con l’immancabile sigaretta fra le labbra. E curiosamente il titolo cambia in
La ballata dell'eroe di fabrizio nella edizione dal film "La Cuccagna",  di Luciano Salce, che vedeva Luigi Tenco attore e cantante-interprete di questa canzone. Da questo periodo in poi il direttore artistico della etichetta Karim diventa Giorgio Calabrese. Novità per la casa discografica fu appunto la veste nuova delle copertine intere ed il logo del tutto rinnovato. Nel frattempo approdano alla Karim artisti come Memo Remigi, scoperto da Giorgio Calabrese, Nora Orlandi, Orietta Berti, Piero Piccioni e Jula de Palma, artista scoperta da Lelio Luttazzi.  

Veniamo ora al 1962. Anno improduttivo per la produzione di Fabrizio De André con la casa discografica Karim. Il 26 Luglio viene celebrato il matrimonio con Enricheta Rignon. Nel dicembre nasce il figlio Cristiano. Anno improduttivo con la casa discografica Karim, sebbene sorga ancora un dubbio:

nelle già citate Carte De André, ovvero "Archivio d’Autore: le carte di Fabrizio De André - Inventario a cura di Marta Fabbrini e Stefano Moscadelli - Introduzione di Stefano Moscadelli  - MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE GENERALE PER GLI ARCHIVI  - anno 2012", alla pag.123 paragrafo 6 appare: “Testo di una canzone di mano di
Luisa Amerio De André” 1962 luglio; in copia successiva «Ninna nanna» scritta da Fabrizio per la nascita di Maurizio Fracassi. Luglio 1962 incisa su disco. La canzone non figura nella discografia di Fabrizio De André".
Il 1962 infatti non vede alcuna pubblicazione ufficiale di 45 giri ad opera di Fabrizio De André. Ma come dicevamo sorge un dubbio: se un autore o cantante o cantautore ha un contratto discografico con una casa di produzione, in questo caso la Karim, è mai possibile che possa incidere una canzone su disco se non con la casa discografica stessa? A meno che non fosse una incisione in proprio destinata alla famiglia Fracassi.
Riassumiamo a questo punto, e per quanto siamo stati in grado di ricostruire, l'elenco delle canzoni cantate e composte da Fabrizio De André per le quali non abbiamo un oggettivo riscontro discografico, almeno sino al 1962:

Canzone di tutti i tempi (Fabrizio-Petracchi) 1961
La Nina del «Gambero blu» (Fabrizio-Petracchi) 1961
Ninna Nanna (Fabrizio De André-Luisa Amerio) incisa su disco nel 07-1962

Nei primi mesi del 1963 la quota societaria di Giuseppe De André viene rilevata da
Giovanni Fischietti, proprietario di complessi minerari in Sardegna e buon amico di Giuseppe De André. Altro socio diventa Gaetano Pulvirenti già direttore della RCA (e già proprietario di una etichetta discografica, la Ariel, la cui direzione artistica era affidata a Piero Ciampi) che ne assume la distribuzione attraverso la Pulivirenti distribuzione SpA, portando mesi dopo la direzione della Karim a Roma.

KN 177 (Il Fannullone - Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers) 03-1963
Successivamente, nel 1963, vedremo l’arrangiatore Giampiero Boneschi che curerà i brani nella pubblicazione de 45 giri con Paolo Villaggio coautore dei testi di entrambi i brani. A proposito della canzone Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, in un capitolo successivo parlerò delle implicazioni giudiziarie che seguirono. In seguito nello stesso anno vedremo una nuova versione de La ballata del Miché, con il codice:

KN 184 (Il testamento - La ballata del Miché) 06-1963
con nuovo titolo che inserisce l’articolo determinativo e un arrangiamento del tutto nuovo di Giampiero Boneschi. La prima canzone invece potrebbe risalire ad un paio di anni prima, considerando gli appunti di Fabrizio stesso citati nelle Carte De André.
Veniamo quindi al 1964. Come già detto Elvio Monti inizia la collaborazione con la Karim e ne diventa supervisore per tutte le incisioni che si spostarono dagli studi di Milano a Roma, dopo l'abbandono dei due precedenti soci. Nel frattempo
Vittorio Centanaro, un musicista ricercatore di melodie medievali in particolar modo francesi, che frequentava ai tempi La Borsa di Arlecchino, invita vecchi amici ad uno spettacolo al circolo della stampa a Genova: fra Arnaldo Bagnasco e Gino Paoli, Fabrizio De André canta sulle melodie suonate alla chitarra dal vecchio amico genovese. Proprio nel luglio 1964 infatti insieme partono per Roma diretti agli studi Dirmapron in via Pola per registrare La guerra di Piero con l'arrangiamento di Vittorio Centanaro e una nuova incisione de La ballata dell’eroe, con l'arrangiamento nuovo di Gian Piero Reverberi. Il disco vedrà la pubblicazione nel settembre del 1964 con il codice:

KN 194 (La ballata dell'eroe - La guerra di Piero) 09-1964
sempre omettendo il cognome del cantante. Come ebbe a dichiarare Vittorio Centanaro, a casa di Fabrizio De Andé a Genova, Vittorio e la moglie gli fecero ascoltare una canzone antica francese del XV secolo che si intitolava File la laine. Fabrizio apprezzò molto il brano tanto da inciderlo e tradurlo in Italiano. Fabrizio stesso ebbe a dichiarare successivamente: "Vittorio Centanaro aveva acquistato un libercoletto di pezzi medievali francesi ed anche la musica del Re Sole, da lì ne ho approfittato per prendere il coro de L’Infanzia di Maria. Conteneva pezzi tra il quattordicesimo ed il quindicesimo secolo, lo aveva portato dalla Francia è mi è stato utile". A proposito di L'infanzia di Maria ne parlerò in altro capitolo.

Lo stesso anno 1964, vede la luce a poco più di un mese dal precedente, un disco con un testo scritto sopra il
Valzer Campestre della Suite Siciliana di Gino Marinuzzi, che si intitola Valzer per un amore e sul retro del disco La Ballata di Marinella, poi corretta in La Canzone di Marinella, che rinsalda la collaborazione con Giampiero Reverberi almeno nella versione La canzone di Marinella. Il codice del disco è:

KN 204 (Valzer per un amore - La canzone di Marinella) 10-1964
E a questo punto si apre l'ennesimo dubbio: La Ballata di Marinella, primo titolo del brano, riporta Orchestra diretta dal M.o Giampiero Boneschi. La canzone di Marinella riporta invece orchestra diretta dal M.o Giampiero Reverberi. Non è dato di capire chi sia stato l'arrangiatore. Ma la logica dice che se l'arrangiamento è opera di Reverberi, difficilmente l'orchestra viene diretta da Boneschi, e viceversa. Siamo di fronte ad un errore madornale oppure ci sono varie versioni del brano? Gli archivi Siae non fanno alcun cenno, ovviamente. E comunque ci vorranno altri quattro anni affinché Mina incida la sua versione nel 1968 e decreti il vero inizio della carriera artistica di Fabrizio De André.

KN 206
(Per i tuoi larghi occhi - Fila la lana) 10-1965
sotto la direzione d'orchestra ed arrangiamento di Elvio Monti e la canzone tradotta dal francese fatta conoscere da Vittorio Centanaro di cui si è già accennato. Curiosamente la foto di copertina ritrae un Fabrizio De André impeccabile in giacca e cravatta sullo sfondo di un pergolato, o qualcosa di simile, che è lo stesso sfondo della copertina del disco di Giuliana Milan di cui si è accennato qualche riga sopra. 
Elvio Monti è accreditato sul disco, per quanto riguarda il primo brano, come autore e orchestratore, ma non vi è traccia negli archivi Siae, mentre lui stesso dichiarò che fosse l'unico autore della musica. Più avanti qualche considerazione sul secondo brano Fila la lana.
Nell'organico Karim compare già dal 1964 un pianista accompagnatore di Claudio Villa, certo
Elvio Monti, praticamente unico arrangiatore per la Ariel, che firmerà nel 1965 (archivi Siae) la musica di (KN 208 -Stringendoti le mani) brano di Fabrizio De André eseguito da Giuliana Milan. La confusione in Karim regna sovrana: la copertina di questo disco riporta "Stringendoti le mani", l'etichetta sul vinile "Stringendomi le mani". Ed anche qui l'unico autore accreditato sulla etichetta del disco è Fabrizio De André, mentre per gli archivi Siae (Stringendomi le mani) è solo autore del testo. Compositore originale è Elvio Monti, come già detto arrangiatore di molte canzoni anche di altri artisti. Elvio Monti firmò le canzoni di Fabrizio De André perché semplicemente allora la Siae non permetteva l’iscrizione a chi non sapesse leggere la musica e gli spartiti. Ne conseguì che Fabrizio De André si iscrisse come autore dei testi e solo qualche anno dopo anche come melodista, ovvero autore delle melodie musicali. Giuliana Milan interpreterà anche la canzone di Piero Ciampi Ballata per un amore perduto, KN 210 la cui orchestra era diretta sempre da Elvio Monti. Proseguirà la sua carriera artistica ripubblicando per la casa discografica Sibilla, il cui direttore artistico era Elvio Monti, la canzone di Piero Ciampi e successivamente come soprano a fianco del maestro genovese Agostino Dodero, compositore della celebre Ave Maria Zeneize. Per essere infine il soprano di punta della corale di Isorelle, frazione di Savignone, poco sopra Genova.

Nel dicembre del
1965 vede la pubblicazione il 45 giri con il codice:

KN 209
(La città vecchia - Delitto di paese) 12-1965
Il secondo brano è la prima traduzione ufficiale da
Georges Brassens apparsa su disco: L'assassinat era il titolo originale di Georges Brassens. Il nome Brassens comunque è citato più volte nelle note del retro dei 45 giri precedenti sin dal suo secondo disco KN 103. Curioso notare  l'auto-censura subita dal disco (con conseguente ristampa) per una frase ritenuta volgare contenuta ne La città vecchia. Ho definito auto-censura, per il fatto che non vi è notizia a questo proposito nella rassegna stampa dell'epoca, molto attenta a questo autore definito prudentemente anticonformista. In altro capitolo ne faremo l'analisi del testo. In ogni caso, a proposito di questo brano, gli archivi Siae attribuiscono al solo Fabrizio De André i diritti sul testo e sulla musica, mentre su alcuni dischi gli autori sono E.Monti - Fabrizio De André. Per la prima volta, almeno sulla etichetta del disco, l'esecutore è Fabrizio De André, nome per esteso, cognome compreso. Ma è a questo punto che le sorti della Karim, che si reggeva per lo più sui dischi di Fabrizio De André, cominciano a vacillare. La produzione e la direzione si spostano definitivamente a Roma a causa dell'abbandono dei soci genovesi. Gino Arduino stesso si spostò alla Fonit Cetra. Intanto nel marzo del 1966 appare il disco:

KN 214 (La canzone dell'amore perduto - Ballata dell'amore cieco (o della vanità) 03-1966
con la interpretazione del primo brano con un testo inedito su un'aria del Concerto in re maggiore per tromba ed archi di George Philip Telemann. Entrambi i brani sono a firma del solo Fabrizio De André, anche negli archivi Siae. In realtà il secondo brano non è che la riscrittura fedele della poesia Cuore di mamma del poeta Jean Richepin (1849-1926), inciso pochi mesi prima di Fabrizio De André dalla Karim stessa con il codice KN 211 da Marzia Ubaldi (già presente in Eva a gogò) successivamente attrice e doppiatrice per la Tv ed il cinema. Per qualche strana alchimia scompare di nuovo il cognome De André dalla etichetta. Il successivo disco:

KN 215 (Geordie - Amore che' vieni, amore che vai) [SIC] 04-1966
riporta la fedele traduzione della canzone Geordie, molto popolare in Gran Bretagna. Infatti il sottotitolo riporta Antica Ballata Inglese, cantata a due voci con il supporto dell'allora sua insegnante di inglese Maureen Rix. Riappare per la seconda volta il cognome De André sulla etichetta. Gli archivi Siae invece riportano Fabrizio De André unico autore del testo e compositore originale. L'altra facciata del disco è il brano Amore che vieni, amore che vai che cita sulle copertine sul disco il solo autore Fabrizio De André. Scompare di nuovo il cognome dall'esecutore del brano. Curioso anche che gli archivi Siae riportino il titolo in Amore che vieni, amore che va, scritto senza la "i" finale. Non meno curioso è l'apostrofo dopo il primo "che" nel titolo. Non si può far a meno di notare a questo proposito che l'ispirazione venne dal testo di Igino Ugo Tarchetti, Amor Sen va Amor sen viene, scritta per la canzone interpretata da Paolo Frontini nel XIX secolo. E concludiamo la storia delle pubblicazioni Karim di Fabrizio De André con la raccolta nel 1966 del Long Playing:

KLP 13 10-1966
che racchiuse la gran parte della produzione Karim. La casa discografica si avviò lentamente al fallimento, non prima però che i due soci romani Pulvirenti e Fischietti fondassero la Roman Record Company, che assorbì l'intero catalogo e provvide alla ristampa di quasi tutti i dischi di Fabrizio De André. Fra gli strascichi giudiziari legati alla Karim, non possiamo non citare la denuncia per oscenità nel 1965 per la canzone Carlo Martello. Ed ancora la denucia che lo stesso Fabrizio De Andé fece nei confronti della direzione romana della Karim per il mancato pagamento dei diritti editoriali. Ne parleremo più avanti.

La rassegna stampa del periodo 1961-1966

1963 settimanale Alba  - 23 giugno
Ha ventun anni, è genovese, ricchissimo. Ed una sola passione: comporre e cantare. Fabrizio si è affacciato al mondo della musica leggera con ambizioni di rinnovatore, e una certa strada l'ha fatta. Le sue radici culturali (oltre a cantare egli è autore di testi poetici) affondano in una certa maniera francese impegnata: la maniera di Brassens, tanto per intenderci. Lo abbiamo sentito alla TV recentemente e non ci è spiaciuto. Anzi, Line Renaud, che lo ha ospitato nel suo show, ne è rimasta affascinata. Le sue incisioni (su dischi Karim) sono: "Il fannullone" accoppiato a "Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers" (e non ditemi che non è un titolo originale); e "La ballata del Michè" con "Il testamento". Tutte canzoni sue.

Il 2 maggio 1963 infatti avviene il debutto televisivo di Fabrizio De Andé, nel programma Rendez-Vous, condotto da Line Renaud con la regia di Vito Molinari e trasmesso dal primo Canale: canta Il fannullone.


To be continued...

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